domenica 24 aprile 2011

Una questione morale

Un terribile interrogativo mi tormenta da ieri pomeriggio, da ancor prima direi da quando la cucina del ristorante ha dato l’ordine un paio di giorni fa, forse da quando il mio capo – che ci prova sempre a dare compiti ingrati al primo che passa- ha buttato lì: << ci pensi tu alle oche?>>. In effetti avrebbe dovuto tormentarmi dall’inizio, questa tremenda domanda, da quando mi hanno detto che uno dei miei compiti qui sarebbe stato badare agli animali.
L’inquietante interrogativo, che forse avrete già intuito è: sono io responsabile della morte degli animali della fattoria anche se materialmente non sono io ad ucciderli?
Ieri è toccata alle oche. << Uccidete le oche>> hanno fatto sapere dal ristorante dell’agriturismo e io e la mia collega ci siamo guardate atterrite. Perché, adesso che lavoriamo qui da diversi mesi, quelle oche sono le nostre oche e le galline sono le nostre galline e ci sono le nostre pecore, i nostri maiali, le nostre quaglie…e come dimenticare i nostri conigli? Insomma per noi i polli non sono più quel taglio di carne molle e bianchiccio che sta nella vaschetta di polistirolo del supermercato e quindi è tutto più difficile.
Le oche a dir la verità non hanno mai vinto il premio simpatia. A vederle possono sembrare anche buffe e amichevoli ma, credetemi, non è così. Forse perché sono più alte, grandi e forti delle loro cugine anatre, forse per quella loro andatura impettita e altera le oche da quando sono arrivata mi sono sempre sembrate, tra i pennuti, le più arroganti e prepotenti..
Una mattina ho trovato una di loro che faceva lo scalpo a una povera papera davanti alla vasca dove sono solite fare il bagno. Teneva una delle sue grandi zampe palmate sopra il dorso della malcapitata paperella e intanto con il becco la colpiva ripetutamente sul capo. Sangue ovunque, starnazzi di terrore e quando mi sono avvicinata per salvare la vittima, l’oca killer ha soffiato nella mia direzione. Le oche soffiano in segno di minaccia, lo sapevate? Aprono il becco seghettato, tirano fuori la lingua emettendo un suono simile a quello dei gatti quando inarcano la schiena. Delle vere stronze insomma, e lo dico consapevole che non si dovrebbe parlar male dei morti.
Fanno gli agguati, le oche. Ti giri per mettere il mangime nelle mangiatoie e quelle, silenziose ti arrivano alle spalle, pronte a darti una beccata. Sono vanitose e rumorose, le oche, non fanno che pavoneggiarsi sbattendo le ali e starnazzare continuamente anche per un intero pomeriggio, fino a logorarti il sistema nervoso.
Insomma, se devo essere onesta mi era capitato più di una volta di passare davanti al loro recinto  e sorridere malignamente mentre mi venivano incontro soffiando con il becco per aria:<< soffiate, soffiate>> dicevo << tra un paio di mesi, quando vi tireranno il collo come farete a soffiare eh?>>. E poi il momento di tirare il collo alle oche è arrivato. E il mio capo ha provato addirittura a propormi come boia:<< le vuoi far fuori tu le oche?>> Ma io ho detto subito che no, non me la sentivo. E non me la sentivo neanche di stare a guardare a dir la verità. Ho detto a me stessa che non avrei preso parte a nessuna fase della terribile mattanza e che sarei andata dall’altra parte dell’azienda, per non vedere, non sentire e non avere niente a che fare con l’intera faccenda. Il boia ufficiale qui è un signore dell’età di mio padre che fa il cacciatore e vive nei dintorni, c’avrebbe pensato lui. Lui che scuoia senza battere ciglio daini e cinghiali non si sarebbe certo fatto problemi morali per l’uccisione di un paio di oche. E infatti non si è fatto troppo pregare, ne ha avuto difficoltà a trovare aiutanti tra i ragazzi che si occupano del giardino e dell’orto; in tre si sono diretti, scherzando e ridendo, verso il recinto delle oche:<< guarda come sono grasse>> dicevano << chissà che bell’arrosto!>> E giù battute sul paté di fegato d’oca. Ed è stato allora che mi è scattato qualcosa dentro.
Perché stavano prendendo in giro le MIE oche, porca puttana.
 Stavano per farle fuori e per loro era quasi un divertimento e le mie arroganti, intolleranti, indisponenti oche sarebbero morte per mano di questi tizi che neanche le conoscevano. Che non provavano per loro nessun sentimento, neanche la mia meritata antipatia, la rispettosa antipatia di una che avevo dato loro da mangiare ogni giorno e le aveva guardate fare il bagno nel laghetto artificiale. E allora l’ho detto. Ho detto:<< vi aiuto anch’io facciamo presto>> e sono stata a guardare per assicurarmi che facessero presto e che non le facessero soffrire inutilmente. E poi ho aiutato a spennarle e a sezionarle e poi le ho portate in cucina e sono stata io a spazzar via dal cortile tutte le loro piume, quelle piume soffici e bianchissime che quando sfiorano la pelle fanno il solletico. E quindi la risposta all’interrogativo iniziale dovrebbe essere si, sono responsabile della morte di quelle povere bestie. Non avrò tirato il loro collo con le mie mani, ma sono stata a guardare e ho dato pure una mano. Ho un paio di amici, di quelli che non calpestano neanche le formiche ne uccidono le piattole con un colpo di pantofola quando se le ritrovano in cucina, che probabilmente mi  giudicheranno severamente dopo aver letto tutto questo.
Diranno forse che stare qui, in mezzo a questi rudi contadini e cacciatori chiantigiani mi ha tolto ogni senso di pietà e  compassione, diranno che ho ucciso un povero animale indifeso per deliziare il palato di qualche ricco americano ospite del nostro ristorante e che questo è un gesto moralmente riprovevole. E io dovrò rispondere loro che invece è proprio il mio personalissimo senso morale che mi ha imposto di comportarmi in questo modo.
Dovrò rispondere che io sono responsabile di questi animali, di tutto quello che accade loro e sarebbe stato da ipocriti e da vigliacchi filarmela e lasciarli nelle mani di qualcun altro solo perché la loro uccisione non è un bello spettacolo da vedere.
Spero che abbiate capito che la “questione morale” è davvero profonda e importante e non riguarda solo le oche….perché ci sono molte situazioni nella vita di ognuno di noi in cui qualcuno ci guarda e dice:<< che vuoi fare? Resti o te ne vai?>> e dalla risposta che diamo si può capire cosa ognuno di noi intende per BENE e MALE.
Io gioco da una vita all’interno della categoria RESTO. Io resto sempre, anche quando restare è una gran seccatura, anche quando restare è sbagliato, anche quando non serve a niente.
Lungi da me giudicare coloro che appartengono alla categoria ME NE VADO o sottointendere che il loro comportamento è moralmente sbagliato…dico solo che io faccio fatica a comprenderlo, proprio non riesco a capire come si possa giocare nella categoria ME NE VADO.
Quindi, al fine di stimolare il dibattito, invito tutti quelli che al posto mio se ne sarebbero andati di fronte al boia pronto a entrare in azione a spiegarmi perché, a espormi il loro punto di vista.
E per consolarvi e consolarmi dalla perdita delle mie povere, cattivissime oche vi dirò quello che mi ha detto la proprietaria dell’azienda agricola: <<in un allevamento industriale le nostre oche sarebbero vissute pochi mesi chiuse in una gabbia con scarsissima possibilità di muoversi, mentre qui sono vissute per un anno e mezzo pressoché libere in un bosco bellissimo;  la maggior parte delle oche vengono allevate per il fegato e a questo scopo sono letteralmente ingozzate di cibo con un imbuto e questo implica una morte terribile e atroce che le nostre oche non hanno dovuto sperimentare>>.

martedì 19 aprile 2011

la carretta




Nessuno ci pensa ma la cariola o carretta  è oggetto imprescindibile in ogni fattoria che si rispetti. Con essa si trasporta per brevi tratti qualunque cosa: terra, concime, sassi, cemento. A volte sembra quasi che lavorare la terra sia un infinito portare e trasportare la terra medesima e le cose che ci stanno dentro da un punto all’altro con una cariola.
Ora, da quando sono qui “scarrettare” ovvero portare carrette piene di terra, sementi, cemento e quant’altro è una dei miei doveri quotidiani.
Il primo giorno che ho sollevato una carretta piena di cemento ho pensato “ non ce la farò mai” e mentre avanzavo in salita, ansimando davanti ai muratori albanesi che mi guardavano tra il divertito e il compassionevole mi sono detta: << bene, questa è la prova, dal peso di questa carretta si riconosce una vera femminista>>.
Perché avrei potuto farlo, si, avrei potuto: fingermi stremata, inciampare malamente, sbattere gli occhioni e sorridere e chiedere:<< me la portate su voi?>>. Non l’ho fatto.
Eroicamente ho rifiutato ogni aiuto e ho portato su la mia carretta. Era pesante. Ad ogni curva rischiavo di ribaltarmi, ogni sasso o buca mi sbilanciava. Ci vuole tecnica, ci vuole esperienza, bisogna usare il cervello anche per portare su una carretta.
Ho guardato i muratori albanesi, ho scoperto che per trasportare un peso simile la forza fisica è solo una delle variabili, forse neanche la più importante.
Fondamentalmente è una questione di incoscienza. Se hai il fegato di rischiare l’osso del collo e buttarti giù in picchiata dalla discesa faticherai di meno, se prendi la rincorsa in salita idem. Vale anche per le curve, vale per le buche e i sassi: maggiore è la velocità minore è il rischio di far cadere il carico. Certo puoi cadere tu. Ti puoi fare male. Ma a questo non hai il tempo di pensare quando devi portare su e giù venti, trenta carrette cariche in un ora. E così ora “scarretto” su e giù che è una meraviglia. Ironia della situazione da quando i miei colleghi maschi hanno capito che ho la forza e la volontà di portare un peso simile, non tentano più neanche il gesto cavalleresco…anzi mi fanno posto affinché io possa caricare prima di loro.
L’iniziale fierezza di “farcela da sola” mi è passata da un pezzo. Ora che vengo trattata tale e quale a qualunque altro maschio nerboruto che lavora accanto a me “scarrettare” non mi sembra più un gesto carico di valori positivi ma solo una fatica come un’altra.
Una grande fatica. Una gran rottura. E così oggi ho ceduto, quasi non me ne sono accorta e ho ceduto. La salita che dovevo percorrere era più ripida del solito, il ragazzo  che mi stava di fronte più dolce e gentile degli altri. Quando mi ha caricato la carretta di cemento ho sorriso, quasi senza accorgermene. E lui, poveretto ha puntato un dito verso se stesso: << la porto io?>> Il mio sorriso si è allargato << grazie>>.
Al terzo carico, c’avevo preso gusto. Salivo su tutta sorridente con la carretta vuota guardavo il mio lui con l’occhio languido e in un attimo, senza che io avessi versato neanche una goccia di sudore, il carico era arrivato a destinazione. Il mio principe azzurro della muratura a presa rapida alla fine della giornata ha preteso un bacio sulla guancia come ricompensa.
Gliel’ho dato cosciente che non valeva neanche l’infinitesima parte della fatica che aveva fatto. Gliel’ho dato e ho capito che la parità tra uomini e donne è una stupida utopia, una frase fatta che non può portarci da nessuna parte.
Gli uomini e le donne non sono uguali. Sono diverse soprattutto le cose che crediamo di saper fare. Gimmy che è un ragazzo alto e magro, un mingherlino dalle mani grandi e sproporzionate CREDE nonostante i suoi sessanta chili di poter portare una carretta del doppio del suo peso.
Io che sono robusta e in buona salute CREDO che un mio sorriso possa influenzare la volontà di un ragazzo. E sono le nostre convinzioni assolutamente prive di fondamento, puri atti di fede che però fanno si che ognuno di noi raggiunga il suo scopo.
Dopo essermi sentita in colpa e prima di tornare a casa stasera ho gettato un ultimo sguardo alla salita: no, non c’era da stupirsi che avessi chiesto aiuto. Era davvero, davvero molto ripida. E io non avrei potuto farcela. Non con QUELLA carretta. Una carretta pensata per la forza di un uomo. Se esistessero carrette più piccole forse, più leggere……….perchè non esistono?
Probabilmente esistono, basta cercare su internet o in qualunque negozio specializzato. Ma io scarretto da due mesi come una matta e non c’ho pensato…non ho pensato a dire “ ehi, uomini datemi uno strumento adatto alle mie possibilità, io non sono più debole di voi sono solo diversa”.
No, a questo non ho pensato. Per settimane ho cercato di dimostrare che ero uguale a loro…oggi, vinta dalla realtà, ho sorriso dando forza a un luogo comune.
L’unica cosa che non mi sono risolta a fare era ammettere che sono diversa e comportarmi di conseguenza, fiera della mia diversità.
E un pensiero, o piuttosto un’immagine, mi attraversa la mente stasera: Simone de Beauvoir con il suo tailleur di Parigi, gli occhi bistrati di nero, le unghie laccate, l’immancabile sigaretta esistenzialista all’angolo della bocca…che tenta di sollevare una carretta piena!
Dev’essere stato dopo un’esperienza del genere che ha scritto per la prima volta:<< donne non si nasce, si diventa>>. 

sabato 16 aprile 2011

Sesso e trasgressione in fattoria

A questo punto devo parlarne. Non posso più tacere ne far finta che la questione non esista. A questo punto è bene rompere i tabù, sovvertire gli schemi, dimenticarsi dei luoghi comuni.
Il fatto, in breve, è questo: le nostre coniglie fanno sesso tra di loro. E fin qui..non credo di essere ne la prima ne l’ultima a vedere due animali dello stesso sesso che si accoppiano.
Ma quello che ho scoperto stando quaggiù è che la faccenda è molto più frequente di quanto non pensassi,  che le espressioni di sessualità omosessuale si manifestano anche in mezzo ai periodi di calore, quando in teoria gli animali dovrebbero tendere  a razionali accoppiamenti etero a scopo riproduttivo.
Nonostante le mie vaghissime conoscenze scientifiche è questo che mi avevano insegnato più o meno in terza media. I piselli di Mendel, le teorie di Darwin. La natura che possiede una sorta di “istinto primario” a riprodursi, a portare avanti la specie, a crescere in numero di esemplari, il più forte che prevale sul più debole.
Invece ragazzi, volete sapere a che conclusione sono arrivata con tutto il rispetto per Mendel e Darwin? La natura è pazza, completamente. Se ne frega delle leggi e della biologia, se ne frega persino degli espedienti e dei trucchetti umani per tentare di razionalizzare e programmare le nascite degli animali che in una fattoria come la nostra sono all’ordine del giorno. Gli animali fanno come pare a loro…più o meno come noi, checché ne dica la Scienza.
Prendete le nostre coniglie che in onore di una nota coppia lesbica della letteratura del Novecento ho ribattezzato Gertrude e Alice. Entrambe sono state individuate come coniglie da riproduzione: Alice è color caffè con la coda a batuffolo attraversata da una striscia bianca, così florida e grassa da avere addirittura il gozzo. Gertrude è una coniglia albina dal pelo bianco e dal portamento matronale che, se non vado errata ha già partorito almeno un paio di volte.
Ora i nostri conigli – come quasi tutti i nostri animali -  stanno liberi in grandi recinti che non sono altro che porzioni del bosco antistante gli orti e la casa circondate da una rete metallica che serve più che altro a proteggerli dai predatori. Questa cosa a me piace enormemente, è uno dei motivi che riesce a consolarmi quando penso che – allevamento biologico o meno-  gli animali qui finiranno prima o poi in padella:<< certo>> mi dico << ma dopo aver vissuto una vita più che dignitosa>>. Il pezzo di bosco dove stanno i conigli è pieno di tane e buche che loro hanno scavato per terra. Per tutto l’inverno hanno saltellato tranquilli scavando tunnel e gallerie finché un brutto giorno di marzo una malattia non ha decimato la piccola colonia composta da sei conigli “adolescenti” e le nostre due matriarche: Alice e Gertrude. In pochi giorni ne abbiamo persi quattro, ancora stentiamo a capire che cosa si siano presi: toxoplasmosi, Mev…non lo sappiamo. Sono i rischi del biologico, mi hanno detto. Quando non imbottisci gli animali di farmaci e non li droghi con gli steroidi, quando li nutri solo con fieno e piante come la Ginestra che cresce rigogliosa nei boschi… qualcuno può non farcela. Il nostro amico Darwin forse la chiamerebbe selezione naturale. La “peste dei conigli” se n’è andata così com’era venuta quand’è arrivata la pioggia (come nei Promessi Sposi)  lasciando vivi solo due esemplari che sono sopravvissuti, forse, grazie a massicce dosi di Echinacea, un medicinale omeopatico che abbiamo somministrato loro dopo averli “isolati” in un altro recinto. Alice e Gertrude invece, non si sono proprio ammalate. Sembravano immuni al contagio. Ed è così che, con la popolazione dei conigli decimata, abbiamo deciso di ospitare da un'altra fattoria un esemplare maschio – di provata virilità ci avevano assicurato -  per vedere se Alice e Gertrude “mettevano su famiglia” un'altra volta. Il maschio è arrivato, grande, bello, grigio e bianco, con due orecchie enormi e mobilissime, Alice e Gertrude sono state messe in una grande gabbia divisa a metà da un tramezzo di legno per facilitare l’accoppiamento.
Ho dovuto fare, mio malgrado, il mestiere più brutto del mondo: quello di mezzana. Ogni giorno facevo scorrere il tramezzo di legno e il maschio  passava da una parte all’altra: dopo aver trascorso una notte con Gertrude, lo mandavamo a trascorrerne una con Alice. Le settimane passavano e niente avveniva. O meglio, il maschio si impegnava direi, anche sotto i nostri occhi perché gli animali si sa non hanno il “comune senso del pudore”, Alice e Gertrude lo lasciavano fare senza troppo entusiasmo. In verità c’erano già stati segni alquanto preoccupanti: Alice aveva preparato un nido di fieno all’interno della gabbia, come se dovesse partorire e l’aveva disfatto pochi giorni dopo. Sempre Alice, forse infastidita dai frequenti approcci del maschio che pareva preferirla di gran lunga all’altra coniglia, aveva preso a “montarlo” a sua volta ogni volta che lui tentava di accoppiarsi, scatenando all’interno della gabbia vere e proprie gare a “chi sta sopra chi”.
Fino a che un giorno Gertrude non ha abortito. Non c’eravamo accorti che fosse incinta e doveva esserlo solo da pochi giorni probabilmente. Quando siamo andati a darle da mangiare quella mattina abbiamo scoperto che…la signora aveva già fatto colazione: si stava mangiando, di gusto direi, i piccoli feti appena abortiti. E poi la tragedia: circa dieci giorni dopo vado di buon mattino a controllare la gabbia e trovo il maschio sdraiato a terra, morto. Apparentemente sano fino al giorno prima è morto anche lui per un male misterioso, Alice e Gertrude se ne stavano immobili come due cariatidi ai lati opposti della gabbia, lontane dal cadavere,  come a voler dire “ non siamo state noi” io per parte mia continuo ad avere forti sospetti su di loro. Di qualunque male sia morto il povero maschio le femmine, come sempre, non se lo sono preso. Sono rimaste sane e sono tornate single, le abbiamo controllate con cura e anche la speranza che il defunto le avesse almeno lasciate “ragazze madri” è sfumata dopo pochi giorni.
La natura è pazza, imprevedibile, contorta e il mio capo si è arreso: tra pochi giorni arriverà una coniglia già incinta per aumentare di numero la popolazione, non c’era più motivo di lasciare in gabbia Alice e Gertrude e così ieri le abbiamo liberate. E appena libere, prima ancora di correre e saltellare in giro, prima ancora di andare a cercarsi qualche bella buca o tunnel confortevole: si sono annusate, riconosciute e….accoppiate. Le ho guardate un po’ perplessa, Alice sopra Gertrude sotto, e nel frattempo pensavo che quello era solo l’ennesimo episodio di amore omosessuale all’interno della fattoria: il Montone si accoppia, ormai da svariato tempo, con il Verro travalicando non solo i confini di genere ma anche quelli di razza. Le oche, entrambe femmine, si esibiscono reciprocamente in rituali di accoppiamento, i colombi maschi tubano fra di loro. Alice e Gertrude sono solo l’ennesimo esempio, il primo di omosessualità al femminile tra mammiferi, ma sono certa che è solo una questione di casualità e coincidenze: se potessimo osservare gli animali ventiquattrore su ventiquattro ne scopriremmo molti altri.
La natura è pazza, imprevedibile, irrazionale. Parole come “imperativo biologico”, “istinto materno”, mi saltano alla mento ogni volta che assisto a qualche episodio “fuori dalle leggi Darwiniane e Mendeliane”, sono certa che qualche amico scienziato o veterinario saprebbe darmi spiegazione di tutto questo, sono certa che queste cose sono note e so di non aver fatto importanti scoperte zoologiche. Ma non possono non venirmi alla mente le tante volte in cui usiamo la natura per giustificare le leggi umane che regolano le due cose, delicatissime, che abbiamo in comune con gli animali: il sesso e la riproduzione.
E mi chiedo che cosa potrebbe accadere se portassimo  i ragazzini delle medie che sudano sugli incroci di recessivo e dominante dei piselli di Mendel davanti alla gabbia di Alice e Gertrude senza proporre loro nessuna spiegazione razionale di quello che hanno davanti agli occhi, senza parlare di leggi o biologia. “La natura è pazza, imprevedibile, irrazionale” direi a questi giovani, ipotetici visitatori delle mie coniglie lesbiche “ e per questo grandiosa e piena di poesia nelle tante, incredibili sfumature e differenze nelle quali si esprime. Una cosa è certa in natura: quando due esseri viventi si scelgono, non c’è niente, neanche l’ossessivo bisogno dell’uomo di razionalizzare qualunque cosa e piegarla ai suoi voleri, proprio niente a ben vedere che possa tenerli a lungo separati”.