domenica 12 giugno 2011

Quarto stato

Il mio vecchio capo era solita portare eleganti decoltè con il tacco a spillo numero 37. Il mio nuovo capo calza scarponi antinfortunistici o stivali di gomma e sospetto che il suo numero si aggiri intorno al 45.
Il mio vecchio capo frequentava, per motivi di lavoro, musei e gallerie, sale da conferenza e da concerto.
Il mio nuovo capo per lo più frequenta la vigna, l’orto e ogni tanto fa un salto nel bosco a trovare i maiali, oppure sale sull’escavatore per sterrare qualche sentiero.
Sarebbe interessante raccontare per quali strane, bizzarre, circostanze biografiche io ho finito per avere a che fare con due responsabili del personale tanto diversi. Ma oggi mi sono improvvisamente accorta che le loro differenze si riducono a pochi dettagli esteriori: scarpe col tacco contro anfibi chiodati, smalto laccato contro peli sul petto, portatile e blackberry contro ruspa e trattore….per il resto sono uguali.
Il mio nuovo capo, come il vecchio parla di noi come di preziosi collaboratori entrambi evitano di usare parole come dipendente  o operaio.
Nella mia esperienza pluriennale come lavoratrice precaria con i contratti più diversi non ho mai, dico mai, trovato un capo che si sia seduto davanti a me all’indomani dell’assunzione per mettere in chiaro quali erano i miei doveri e quali i miei diritti.
Che indossi un tailleur elegante o una vecchia camicia a scacchi il capo se la gioca sempre sul filo di un’irritante ambiguità. Si mantiene sul generico e sul vago: chiede “flessibilità” senza specificare in che misura e così qualche mese dopo ti ritrovi a cambiare continuamente turni di lavoro, lavorare un week end su due, fare ore di straordinario senza che ti vengano pagate.
Dice frasi che all’inizio ti sembrano sensate, cose come: <<Dobbiamo imparare a lavorare adottando l’ottica dell’azienda, curare i dettagli, fare bene un lavoro senza preoccuparsi del tempo che ci vuole…e l’azienda valuterà l’impegno di ognuno che sarà ripagato con premi e gratifiche quando i profitti aumenteranno>> che poi scopri di dover tradurre: << ti pagherò gli straordinari il meno possibile ti chiederò di lavorare anche nove o dieci ore il giorno….se accetti questo sistema di buon grado, non ti lamenti, non fai comunella con i tuoi colleghi per cambiare modo di lavorare…allora può darsi che a fine trimestre ti arrivi un premio in nero fuori busta paga, altrimenti andrai a ingrossare le fila dei disoccupati>>.
Le lingue straniere non sono mai state il mio forte ma “il verbo del capo” l’ho imparato così bene che potrei fare traduzioni simultanee, vi faccio un altro esempio:

IL CAPO: << ci piace lavorare con ragazzi giovani, anche senza esperienza perché così possiamo usare il loro entusiasmo e la loro voglia di fare… e da noi vi facciamo imparare gratis quello che in altri posti costa soldi in corsi di formazione>>

TRADUZIONE: << assumo giovani inesperti perché è più facile chiedere loro ore in più, massima disponibilità, obbedienza alle regole aziendali. Un professionista già formato non solo costa di più in termini di stipendio ma rompe le scatole: perché lui sa cosa fare e come farlo, perché ha sviluppato un senso critico, una propria opinione sulle cose e non si piegherà facilmente ad ogni capriccio e ad ogni mia richiesta>>

 Potrei andare avanti per ore, potrei descrivervi nei dettagli la discussione che ho avuto qualche giorno fa con il mio capo in cui io traducevo dall’ “aziendalese” al linguaggio dell’operaio comune ogni sua frase….ma infondo non sarebbe molto interessante. Sono sicura che questi piccoli aneddoti sono esperienza comune di tutti i miei coetanei precari, come sono certissima che la mia protesta è stata inutile e mi toccherà lavorare una domenica su due per i prossimi tre mesi.
Se proprio devo dirla tutta ho smesso anche di avercela con il capo. Lui fa il suo mestiere che è quello di ottenere dai dipendenti il massimo profitto con il minimo investimento…non è un bel mestiere sfruttare le persone in un modo o nell’altro. Quello che ho trovato davvero sconcertante, in quest’azienda come in tutte le altre dove ho lavorato, è il rapporto con i miei colleghi. Vittime perfette di un’altra delle “regole d’oro” dell’ottimo gestore delle risorse umane ovvero il buon vecchio dividi et impera, ognuno di noi è stato preso, nei primi giorni dopo l’assunzione sotto l’ala del capo ad ognuno sono state spiegate regole e consuetudini in separata sede….il capo ha fatto a tutti il suo “discorsetto motivazionale” e la maggior parte di noi l’ha recepito così bene che ognuno se ne sta sulle sue, chiuso, isolato, sospettoso.
In pausa pranzo, nei momenti di sosta o di riposo i miei colleghi parlano di tutto: di calcio, di politica, del tempo e di cosa faranno nel week end….nessuno parla mai del suo contratto però, nessuno chiede mai agli altri chiarimenti su quello che funziona e su quello che non funziona e ovviamente nessuno critica il capo. Non abbiamo il minimo istinto a considerare le nostre condizioni di lavoro un interesse collettivo: persino io ho discusso con il capo da sola, senza pensare a coinvolgere i miei colleghi, anzi se devo dirla tutta mi guardo bene dal coinvolgerli; non vorrei ci fosse qualcuno che ha recepito il “discorsetto motivazionale” con troppo entusiasmo e che considera uno dei suoi doveri riferire al capo che io mi lamento e rompo le scatole…
Ed è così che, dopo un rocambolesco giro di pensieri a ruota libera, possiamo tornare al punto di partenza: i miei capi si somigliano nonostante le notevoli differenze del loro look e, cosa ancor più inquietante, si somigliano le condizioni salariali e contrattuali del mio vecchio lavoro e del mio impiego attuale.
Nelle Tesi di aprile di Lenin, le direttive politiche che il leader bolscevico dettò all’indomani della rivoluzione di Ottobre, c’era scritto più o meno: << ad ogni lavoratore dovrà essere corrisposto uno stipendio che non superi la retribuzione media di un buon operaio>> laddove ha fallito il comunismo trionfano i neo-capitalisti di fine millennio. Non importa che tipo di lavoro fai: se stai otto ore dietro un pc o chino in un campo a seminare ortaggi, ormai a determinare i diritti contrattuali che ci spettano sono la nostra età e la natura del nostro contratto non certo le nostre capacità o esperienze.
Nel salotto di casa mia è appesa una vecchia riproduzione del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, comprata ad una festa dell’Unità più di trent’anni fa. In ogni casa in cui ho vissuto, sin da bambina, il Quarto Stato è sempre stato appeso in salotto. Quarto Stato in salotto, Che Guevara in corridoio, le Lettere dal carcere di Gramsci in libreria….indovinate per quale partito votava mio padre?
Quand’ero piccola i contadini e gli operai di Quarto Stato mi facevano paura. Alcuni di loro, quelli nelle ultime file, erano solo ombre, sagome abbozzate, senza faccia. Il bambino che tiene in braccio la donna in prima fila mi sembrava deforme, malato, e tutto il quadro mi sembrava troppo buio, tetro, triste. Un giorno mio padre mi fece notare come il buio, i colori scuri, caratterizzassero solo lo sfondo del quadro, le ultime file di operai e contadini, mentre la luce illuminava pienamente i tre personaggi in primo piano. Allo stesso modo le facce amimiche, senza lineamenti erano sul fondo, nella massa indistinta, mentre tutti quelli più vicini avevano espressioni cariche di fierezza e dignità: << è perché vengono avanti>> mi spiegò <<avanzano dal buio dell’ignoranza verso la luce della conoscenza>> qualcuno probabilmente doveva averlo invitato a quelle barbose assemblee di partito alla “Berlinguer ti voglio bene”, il titolo doveva essere “Arte e rivoluzione, quali sviluppi possibili? A seguire dibattito…” però quello che mi disse mi fece passare per sempre la paura di quel quadro: << se fossero da soli se ne starebbero fermi nel buio, non saprebbero in che direzione andare ma sono tanti e sono insieme…quelli in prima fila hanno indicato loro una strada possibile e ora vengono tutti avanti>>.
Un’immagine singolare mi ha attraversato il cervello mentre discutevo di ferie e straordinari con il mio nuovo capo: i lavoratori di Quarto Stato fermi, immobili nel buio. Erano vestiti “primo Novecento” come nel quadro originale ma alcuni avevano le cuffie di un Ipod nelle orecchie, altri parlavano al cellulare, altri ancora smanettavano su un pc portatile. Tutti chiacchieravano o cantavano a voce altissima facendo un gran casino, ma si ignoravano l’un l’altro ognuno chiuso in un suo mondo privato, inaccessibile. E finalmente ho capito nel profondo la differenza tra un prezioso collaboratore e un operaio o un contadino.
I preziosi collaboratori del terzo millennio fanno gli interessi del padrone e se ne stanno da soli, immobili al buio, gli operai e i contadini del vetusto Novecento cercavano di fare i propri interessi e cercavano di farli insieme, avanzando lentamente un passo dopo l’altro verso la luce. 

7 commenti:

  1. Grande Chiara!!! Questo post è così bello che è difficile da commentare. Hai fatto un analisi molto intelligente e poetica. A quando il prossimo post?

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  2. Anche a me piace molto anche se e' per forza di cose molto, molto amaro.
    E concordo che purtroppo tutti i tuoi lettori e lettrici hanno moooooooolto simpatizzato con la descrizione del capo e del suo linguaggio aziendale...Anna

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  3. chiara scrivi scrivi scrivi, leggerti è un piacere!

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  4. già..l'aziendalese, cara Anna: anche tu concordi che è un linguaggio trasversale usato nei più svariati luoghi e categorie professionali???
    Io trovo che sia questa la cosa più inquietante...l'universalità dell'idioma del capo!Chissà se i capi all'estero sono diversi...sospetto di si....

    Chiara

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  5. Questo post e' senza dubbio profondo. Anche se personalmente dubito che i colleghi di lavoro vogliano essere uguali e uniti: penso che ognuno voglia la propria liberta' e i propri obiettivi prima di tutto. E cmq il profitto e il mercato esistono identici in 100 altri paesi... mentre i lavoratori non sono trattati ovunque alla stessa maniera. Non e' solo questione di leggi, e' questione di cultura e forse quella media italiana.. andrebbe rivista.

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  6. Sì, un dizionario aziendalese-italiano e italiano-aziendalese (a me è sempre mancato il secondo, per esempio,per comunicare coi capi)sarebbe un'idea vincente. Secondo te esiste? Comunque il post è molto convincente, forse il migliore dopo le Scrofe Divine. Marta

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  7. sospetto che il linguaggio dei capi sia universale.
    aspetto il prossimo post con molta curiosità. tarf.

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