venerdì 17 giugno 2011

spollonando spollonando...




<< Domani iniziamo a spollonare>> mi hanno detto un paio di settimane fa in pausa pranzo e io ho sorriso e annuito. Ho imparato che sorridere e annuire anche quando non so di che cavolo stiano parlando i miei colleghi aiuta il mio super-io a non uscire distrutto dalla spiacevole esperienza di non sapere di che cavolo parla la gente intorno a te. Del resto, nonostante i miei avi contadini, io di agricoltura ne so quanto di astrofisica e i miei colleghi lo sanno, questo non impedisce loro di prendermi in giro ogni volta che io chiedo: << ma spollonare che vuol dire?>>. Ho imparato a sorridere e ad annuire, ho imparato a sgattaiolare di soppiatto in ufficio per consultare un vecchio manuale di agronomia che, fortunatamente, ha una specie di dizionario in appendice.
Spollonare: “Ripulir le viti troncando i falsi POLLONI, ed anche rompere il capo de’ tralci non destinati a formar la potatura dell’anno seguente” recita il mio manuale. Un periodare ottocentesco degno del Carducci che richiama scene bucoliche di  vigneti dalle foglie baciate dal sole di un tardo meriggio estivo. Ed è così che la mattina seguente mi sono presentata in vigna tutta pimpante, pronta ad affrontare la  spollonatura e chiedendomi quali complesse tecniche e strumentazioni si dovessero usare per spollonare. Dopotutto lavoro in una fattoria ma degli anni duemila: abbiamo il trattore, il decespugliatore e ogni sorta di macchinario grande o piccolo per i lavori più diversi di giardinaggio o di agricoltura. Allora come si fa a spollonare? Ho chiesto al mio capo con il mio miglior sorriso aspettandomi di ricevere un attrezzo meccanico di qualche genere che ci aiutasse a togliere dalla pianta della vite i tralci in eccesso. Il mio capo ha sorriso di rimando, si è chinato verso il tronco nodoso della pianta all’inizio del filare ha stralciato con le mani i giovani rami alla base:<< a spollonare si fa così>> ha detto e mi ha allungato un paio di guanti. Ho preso i guanti e ho osservato la vigna alle sue spalle grande almeno quanto un campo di calcio: ho calcolato che l’azienda possiede più o meno altri dieci campi di calcio coltivati a vigneti, ho pensato per un attimo a mia nonna che probabilmente “spollonava” senza guanti e mi sono messa al lavoro.
A metà pomeriggio avevo “spollonato” solo un filare e mezzo, le scene bucoliche e il fascino delle foglie di vite baciate del sole erano un pallido ricordo, i versi del Carducci mi riecheggiavano stolidamente nella testa come una noiosa cantilena di cui si è perduto il  finale, sudavo, avevo mal di schiena e stavo pensando a un modo rapido e pulito per uccidere il mio capo.
Non era per il mal di schiena, non era per il sudore della mia fronte era per l’apparente insensatezza di quello che stavo facendo che una rabbia omicida mi saliva dallo stomaco al cervello: ci doveva essere un modo più rapido e veloce per fare un lavoro tanto noioso. La stanchezza e il caldo mi facevano sognare la “macchina per spollonare”: bella, grande, lucida, da impugnarsi come un fucile mitragliatore, piena di pulsanti luminosi e di bottoni scintillanti, il miracolo della tecnica che quel cretino del mio capo non aveva comprato, ci potevo scommettere, solo per tirchieria. Sono stata sul punto di andarglielo a dire un paio di volte, ma poi è successo qualcosa. Ho smesso di pensare e ho iniziato solo a guardare mentre lavoravo. E allora ho visto che alcune piante avevano delle strane macchie sulle foglie, che c’erano viti più grandi e viti più piccole e che la loro crescita dipendeva dal punto più o meno esposto al sole dove erano posizionate, e ancora ho visto quali piante avevano bisogno di essere sistemate intorno al filo di acciaio lungo il quale si attorcigliano i rami rampicanti, ho visto dove crescono le erbacce e quali e ho visto tante varietà diverse di insetti di cui non sospettavo neanche l’esistenza. E poi si è messo a piovere e tutte le cose hanno preso l’odore, il colore, il rumore della pioggia. A me non è rimasto che uscire dalla vigna e andare al riparo a guardare, braccia incrociate, la pioggia che cade. Questa della pioggia è un’altra cosa che non capivo quando sono arrivata qui: cosa si fa quando piove? Chiedevo – niente si guarda piovere- mi veniva risposto. La mia arrogante mente di città non concepiva che un po’ di pioggia fermasse il lavoro umano: in un ufficio, in una fabbrica si lavora anche se piove “il tempo è denaro” ma qui  Il concetto di tempo è diverso, credo.
Le macchie che ho visto sulle foglie delle viti sono una malattia che dovremo curare, il diverso accrescimento delle piante che ho notato è stato oggetto di discussione, i trattoristi hanno iniziato a nebulizzare il rame nelle vigne e noi abbiamo dovuto sospendere la spollonatura; a me è rimasta l’impressione che finire velocemente il lavoro non fosse la cosa più importante.
Mia nonna ha superato da un pezzo gli ottant’anni e non se la passa troppo bene: ha avuto due ictus, una frattura dell’anca, vive tra letto e sedia a rotelle conservando un cuore di ferro e un cervello ancora discretamente lucido. Vive di piccole cose: si sveglia e ci racconta i suoi sogni che sono sempre surreali e fantasiosi pieni di animali e paesaggi fantastici. Ha lavorato la terra per gran parte della sua vita e adesso qualcuno si chiede se non soffra nell’essere ridotta a un’esistenza tanto monotona e sedentaria.
L’ho guardata nel corso della mia ultima visita: no, mia nonna non soffre per queste cose. Non ha come tanti, troppi miei coetanei la smania di fare qualcosa, essere qualcuno, andare da qualche parte, non l’ha mai avuta neanche quando godeva di miglior salute. Non conosce la fretta, l’ansia, lo stress, non conosce l’ossessione di trovare il modo più rapido di portare a termine un lavoro. Probabilmente conosce quella particolare sensazione che io ho sperimentato in mezzo ad un vigneto: quando smetti di pensare e inizi a guardare e la parola “ io “  diventa solo una parola e non più il monarca assoluto  che governa la tua coscienza.
A mia nonna ho detto che da quando lavoro in una fattoria ho smesso di fumare mentre prima non facevo che accendermi una sigaretta dietro l’altra:<<prima o poi voi giovani dovrete accorgervene>> mi ha detto  << la cosa migliore che il mondo può fare è tornare all’agricoltura>> nella sua voce c’era un tono lievemente canzonatorio….ma neanche poi tanto. 

domenica 12 giugno 2011

Quarto stato

Il mio vecchio capo era solita portare eleganti decoltè con il tacco a spillo numero 37. Il mio nuovo capo calza scarponi antinfortunistici o stivali di gomma e sospetto che il suo numero si aggiri intorno al 45.
Il mio vecchio capo frequentava, per motivi di lavoro, musei e gallerie, sale da conferenza e da concerto.
Il mio nuovo capo per lo più frequenta la vigna, l’orto e ogni tanto fa un salto nel bosco a trovare i maiali, oppure sale sull’escavatore per sterrare qualche sentiero.
Sarebbe interessante raccontare per quali strane, bizzarre, circostanze biografiche io ho finito per avere a che fare con due responsabili del personale tanto diversi. Ma oggi mi sono improvvisamente accorta che le loro differenze si riducono a pochi dettagli esteriori: scarpe col tacco contro anfibi chiodati, smalto laccato contro peli sul petto, portatile e blackberry contro ruspa e trattore….per il resto sono uguali.
Il mio nuovo capo, come il vecchio parla di noi come di preziosi collaboratori entrambi evitano di usare parole come dipendente  o operaio.
Nella mia esperienza pluriennale come lavoratrice precaria con i contratti più diversi non ho mai, dico mai, trovato un capo che si sia seduto davanti a me all’indomani dell’assunzione per mettere in chiaro quali erano i miei doveri e quali i miei diritti.
Che indossi un tailleur elegante o una vecchia camicia a scacchi il capo se la gioca sempre sul filo di un’irritante ambiguità. Si mantiene sul generico e sul vago: chiede “flessibilità” senza specificare in che misura e così qualche mese dopo ti ritrovi a cambiare continuamente turni di lavoro, lavorare un week end su due, fare ore di straordinario senza che ti vengano pagate.
Dice frasi che all’inizio ti sembrano sensate, cose come: <<Dobbiamo imparare a lavorare adottando l’ottica dell’azienda, curare i dettagli, fare bene un lavoro senza preoccuparsi del tempo che ci vuole…e l’azienda valuterà l’impegno di ognuno che sarà ripagato con premi e gratifiche quando i profitti aumenteranno>> che poi scopri di dover tradurre: << ti pagherò gli straordinari il meno possibile ti chiederò di lavorare anche nove o dieci ore il giorno….se accetti questo sistema di buon grado, non ti lamenti, non fai comunella con i tuoi colleghi per cambiare modo di lavorare…allora può darsi che a fine trimestre ti arrivi un premio in nero fuori busta paga, altrimenti andrai a ingrossare le fila dei disoccupati>>.
Le lingue straniere non sono mai state il mio forte ma “il verbo del capo” l’ho imparato così bene che potrei fare traduzioni simultanee, vi faccio un altro esempio:

IL CAPO: << ci piace lavorare con ragazzi giovani, anche senza esperienza perché così possiamo usare il loro entusiasmo e la loro voglia di fare… e da noi vi facciamo imparare gratis quello che in altri posti costa soldi in corsi di formazione>>

TRADUZIONE: << assumo giovani inesperti perché è più facile chiedere loro ore in più, massima disponibilità, obbedienza alle regole aziendali. Un professionista già formato non solo costa di più in termini di stipendio ma rompe le scatole: perché lui sa cosa fare e come farlo, perché ha sviluppato un senso critico, una propria opinione sulle cose e non si piegherà facilmente ad ogni capriccio e ad ogni mia richiesta>>

 Potrei andare avanti per ore, potrei descrivervi nei dettagli la discussione che ho avuto qualche giorno fa con il mio capo in cui io traducevo dall’ “aziendalese” al linguaggio dell’operaio comune ogni sua frase….ma infondo non sarebbe molto interessante. Sono sicura che questi piccoli aneddoti sono esperienza comune di tutti i miei coetanei precari, come sono certissima che la mia protesta è stata inutile e mi toccherà lavorare una domenica su due per i prossimi tre mesi.
Se proprio devo dirla tutta ho smesso anche di avercela con il capo. Lui fa il suo mestiere che è quello di ottenere dai dipendenti il massimo profitto con il minimo investimento…non è un bel mestiere sfruttare le persone in un modo o nell’altro. Quello che ho trovato davvero sconcertante, in quest’azienda come in tutte le altre dove ho lavorato, è il rapporto con i miei colleghi. Vittime perfette di un’altra delle “regole d’oro” dell’ottimo gestore delle risorse umane ovvero il buon vecchio dividi et impera, ognuno di noi è stato preso, nei primi giorni dopo l’assunzione sotto l’ala del capo ad ognuno sono state spiegate regole e consuetudini in separata sede….il capo ha fatto a tutti il suo “discorsetto motivazionale” e la maggior parte di noi l’ha recepito così bene che ognuno se ne sta sulle sue, chiuso, isolato, sospettoso.
In pausa pranzo, nei momenti di sosta o di riposo i miei colleghi parlano di tutto: di calcio, di politica, del tempo e di cosa faranno nel week end….nessuno parla mai del suo contratto però, nessuno chiede mai agli altri chiarimenti su quello che funziona e su quello che non funziona e ovviamente nessuno critica il capo. Non abbiamo il minimo istinto a considerare le nostre condizioni di lavoro un interesse collettivo: persino io ho discusso con il capo da sola, senza pensare a coinvolgere i miei colleghi, anzi se devo dirla tutta mi guardo bene dal coinvolgerli; non vorrei ci fosse qualcuno che ha recepito il “discorsetto motivazionale” con troppo entusiasmo e che considera uno dei suoi doveri riferire al capo che io mi lamento e rompo le scatole…
Ed è così che, dopo un rocambolesco giro di pensieri a ruota libera, possiamo tornare al punto di partenza: i miei capi si somigliano nonostante le notevoli differenze del loro look e, cosa ancor più inquietante, si somigliano le condizioni salariali e contrattuali del mio vecchio lavoro e del mio impiego attuale.
Nelle Tesi di aprile di Lenin, le direttive politiche che il leader bolscevico dettò all’indomani della rivoluzione di Ottobre, c’era scritto più o meno: << ad ogni lavoratore dovrà essere corrisposto uno stipendio che non superi la retribuzione media di un buon operaio>> laddove ha fallito il comunismo trionfano i neo-capitalisti di fine millennio. Non importa che tipo di lavoro fai: se stai otto ore dietro un pc o chino in un campo a seminare ortaggi, ormai a determinare i diritti contrattuali che ci spettano sono la nostra età e la natura del nostro contratto non certo le nostre capacità o esperienze.
Nel salotto di casa mia è appesa una vecchia riproduzione del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, comprata ad una festa dell’Unità più di trent’anni fa. In ogni casa in cui ho vissuto, sin da bambina, il Quarto Stato è sempre stato appeso in salotto. Quarto Stato in salotto, Che Guevara in corridoio, le Lettere dal carcere di Gramsci in libreria….indovinate per quale partito votava mio padre?
Quand’ero piccola i contadini e gli operai di Quarto Stato mi facevano paura. Alcuni di loro, quelli nelle ultime file, erano solo ombre, sagome abbozzate, senza faccia. Il bambino che tiene in braccio la donna in prima fila mi sembrava deforme, malato, e tutto il quadro mi sembrava troppo buio, tetro, triste. Un giorno mio padre mi fece notare come il buio, i colori scuri, caratterizzassero solo lo sfondo del quadro, le ultime file di operai e contadini, mentre la luce illuminava pienamente i tre personaggi in primo piano. Allo stesso modo le facce amimiche, senza lineamenti erano sul fondo, nella massa indistinta, mentre tutti quelli più vicini avevano espressioni cariche di fierezza e dignità: << è perché vengono avanti>> mi spiegò <<avanzano dal buio dell’ignoranza verso la luce della conoscenza>> qualcuno probabilmente doveva averlo invitato a quelle barbose assemblee di partito alla “Berlinguer ti voglio bene”, il titolo doveva essere “Arte e rivoluzione, quali sviluppi possibili? A seguire dibattito…” però quello che mi disse mi fece passare per sempre la paura di quel quadro: << se fossero da soli se ne starebbero fermi nel buio, non saprebbero in che direzione andare ma sono tanti e sono insieme…quelli in prima fila hanno indicato loro una strada possibile e ora vengono tutti avanti>>.
Un’immagine singolare mi ha attraversato il cervello mentre discutevo di ferie e straordinari con il mio nuovo capo: i lavoratori di Quarto Stato fermi, immobili nel buio. Erano vestiti “primo Novecento” come nel quadro originale ma alcuni avevano le cuffie di un Ipod nelle orecchie, altri parlavano al cellulare, altri ancora smanettavano su un pc portatile. Tutti chiacchieravano o cantavano a voce altissima facendo un gran casino, ma si ignoravano l’un l’altro ognuno chiuso in un suo mondo privato, inaccessibile. E finalmente ho capito nel profondo la differenza tra un prezioso collaboratore e un operaio o un contadino.
I preziosi collaboratori del terzo millennio fanno gli interessi del padrone e se ne stanno da soli, immobili al buio, gli operai e i contadini del vetusto Novecento cercavano di fare i propri interessi e cercavano di farli insieme, avanzando lentamente un passo dopo l’altro verso la luce.