venerdì 14 ottobre 2011

Tempo di vendemmia

Da mesi la invoco, infondo vivo nella patria del vino.
Da settimane la attendo, perché le vigne che ogni giorno mi circondano sono uno dei simboli di questo territorio. Sono arrivata in inverno ed erano spoglie, in primavera hanno messo le prime foglie, in estate abbiamo visto comparire i grappoli e da qualche settimana tutti in azienda aspettiamo il comando, l’ordine, la frase fatale: “comincia la vendemmia”.
E la vendemmia iniziò. E io rimasi delusa.
Avevo immaginato la festa dell’uva, canti e chiacchiere in mezzo ai filari, ero arrivata a sognare in una torrida notte estiva, quando il termometro segnava trenta e passa gradi, di una leggera brezza settembrina tra le vigne, di un tino enorme dove affondare i piedi nel mosto come nei film…..i miei sogni svanirono il giorno che un enorme camion frigorifero ha varcato i cancelli della nostra azienda parcheggiandosi ai bordi della vigna.
Sono dolente di informare tutti i nostalgici che hanno pianto di fronte alle scene zuccherose di “ il profumo del mosto selvatico” che la vendemmia qui in Chianti è ormai spoglia di qualunque poesia: è roba per tecnici enologi, trattoristi, cantinieri.
In queste settimane il Chianti mi ha rivelato il suo “lato oscuro della forza”: trattori dai carrelli stracolmi d’uva e camion carichi di grappoli bianchi e rossi attraversano in lungo e in largo le strade tranquille, fiancheggiate dai cipressi in mezzo alle colline; vanno e vengono dalle aziende agricole alle cantine che si trovano  nei centri maggiori: Gaiole, Greve in Chianti o il Valdarno.
Le cantine, tranne quelle storiche, hanno tutte lo stesso aspetto deprimente: enormi parallelepipedi di cemento, al cui interno tutta una serie di macchine e strumentazioni lavorano quintali e quintali di uva al giorno, in un ciclo del tutto simile a quello con cui alla Fiat producono le utilitarie, un ciclo che in una parola si può definire industriale.
Insomma, inutile farsi ingannare dalla bellezza delle vigne color verde e oro che si stendono all’orizzonte all’ora del tramonto: fatte le debite proporzioni stare qui è come stare in Arabia Saudita in mezzo alle raffinerie di petrolio, laggiù parlano di oro nero e qui si tratta di oro rosso o bianco….vino o petrolio le differenze sembrano poche nel vedere la “macchina produttiva” all’opera.
E nella mia azienda? Come se la cavano i paladini del biologico?
Questa volta, direi piuttosto male. È vero le nostre vigne, rispetto alle altre, sono state “trattate” pochissimo: mentre i nostri vicini spruzzavano zolfo e altre sostanze chimiche sui filari noi cercavamo di usare solo prodotti naturali. Però il nostro vino deve stare sul mercato come gli altri e anche noi, arrivati al momento della vendemmia, entriamo in quest’enorme catena di montaggio dell’uva e quindi…..e quindi refrigerazione – il camion frigorifero di cui sopra – delle uve bianche per mantenerle a temperatura ideale durante la raccolta e portarle in cantina tutte in una volta, prove di acidità, controlli sulla quantità di zucchero nel chicco d’uva, ma soprattutto raccolta selettiva: ovvero ogni raccoglitore – leggi anche i disgraziati come me – raccoglie un grappolo e seleziona i chicchi migliori scartando quelli troppo maturi o coperti di muffa…e scartare vuol dire buttare via almeno il trenta per cento del prodotto ad occhio e croce.
E poi ho rapidamente realizzato che per fare la vendemmia ci vuole un sacco di benzina: i trattori vanno avanti e indietro in mezzo alla vigna per caricare e scaricare le cassette da raccolta, i camion portano l’uva in cantina…tutta l’uva che diventerà vino viene spostata su gomma, per produrre una bottiglia di vino da un litro ce ne vogliono almeno due di benzina anche se si tratta di vino biologico. Insomma cari amici, sono costretta a confessare che la vendemmia così lungamente sognata e cominciata solo qualche giorno fa si sta trasformando in un incubo: in pratica passo ore e ore in mezzo al filare spostandomi ad una velocità prossima a quelle delle lumache e facendo sempre gli stessi identici, noiosi movimenti. In una delle numerose allucinazioni che ho avuto – verso il mezzogiorno, gradi ventisette, sole a picco - mi sono vista novella Charlie Chaplin in “ Tempi Moderni” ad una catena di montaggio che però smonta e rimonta viti e piante da frutto…come fossero parti meccaniche e componenti tecnologici...e forse infondo lo sono: se il mio capo si aggira con spettrometri e strumenti vari a misurare e controllare vuol dire che la tecnologia è entrata anche in vigna. Magari sarà un bene per la qualità del vino – io che ne so non sono un tecnico – ma io non sento il calore. Non sento l’amore. Non sento la bellezza. E non mi diverto.
E tutto questo mi fa ricordare perché ormai quasi un anno fa sono scappata dalla città, dalla civiltà, da una vita diversa, per venire qui.
Certo ci sono stati motivi razionali e ragioni pratiche, vicissitudini personali e professionali….ma se dovessi spiegarlo a un bambino di cinque anni perché sono venuta qui, io che fino a dieci mesi fa non avevo mai piantato neanche un geranio in terrazza, gli direi questo: non sentivo più il calore, l’amore, la bellezza, non mi divertivo più.
E anch’io come le piante di vite sono arrivata qui spoglia, nuda e a poco a poco ho messo le foglie, ho ripreso i miei colori….e anch’io come le piante di vite mi avvicino a maturazione tanto più che tra poco sarà anche il mio compleanno e  per parafrasare il sommo poeta mi avvicino al mezzo del cammin di nostra vita…..allora la domanda è d’obbligo e vale per me come per tutti i miei coetanei che in questi tempi difficili attraversano acque perigliose:

Quand’è che la MIA pianta darà i suoi frutti?
Qual è il tempo giusto per fare la vendemmia di un anima?

venerdì 9 settembre 2011

Voi di città..

Capita ogni volta che torno. Capita ogni volta che salgo in macchina e ripercorro al contrario lungo un’autostrada affollata di turisti che vanno in cerca di estate e di mare, la strada che mi ha portato quassù, nel cuore del Chianti a lavorare la terra. Capita nei week end di riposo, capita mentre sto in fila al supermercato o in un ufficio postale, capita, capita sempre più spesso che una voce interiore si metta ad apostrofare gli altri intorno a me, amici, conoscenti, volti sorridenti e benevoli, in un modo strano, nient’affatto scontato….li chiama: voi di città.

E adesso che sono in vacanza e che quindi la permanenza al di fuori del mio angolo di Chianti si fa più lunga la voce si fa sentire più spesso. Intendiamoci anch’io sono una di città, nata, cresciuta e vissuta in città e ho pure l’ambizione di tornarci prima o poi a vivere in quei luoghi civilizzati dove i supermercati stanno aperti fino alle ventuno e per andare al cinema non devi farti quaranta minuti di macchina. Ma l’esperienza che sto facendo mi ha dato un paio nuovo di occhiali con cui guardare la vita urbana e civile. Stili di vita, oggetti, comportamenti che prima non notavo improvvisamente richiamano la mia attenzione.
Prendiamo ad esempio il pane già affettato. Io, da quando vivo qui, ci divento matta per il pane già affettato. Ovviamente il pane per il ristorante del nostro agriturismo viene cotto nel forno a legna della fattoria ed è sicuramente più saporito, salutare, bio-eco-politicamente corretto del pane che tutti voi di città comprate al supermercato. Ma il punto non è questo.
È che pochi giorni fa mi sono accorta che esistono nella maggior parte dei punti vendita queste confezioni in cellophane con dentro una forma di pane già tagliata in tante fette. E guardando questo pane nella sua busta di plastica mi è venuto in mente il Mitraglia (chi frequenta questo blog sa chi è il Mitraglia chi non lo frequenta sappia che è un mio collega di lavoro inconfondibilmente chiantigiano) il Mitraglia che in inverno, quando faceva freddo e durante la pausa pranzo ci radunavamo tutti intorno ad una stufa a legna, prendeva la sua enorme forma del pane, se la accostava contro il petto e tagliava una fetta larga, grande, per fare la fett’unta: pane, olio e sale. La prima volta che lo vidi intento in quel gesto l’immagine delle mani di mio nonno che tagliava il pane nella stessa maniera si sovrappose alla sua e mi resi conto che quel gesto era parte di una storia e di una cultura come un’antica colonna o un dipinto famoso.
E da quando ho avuto questo flash back la mia vocetta interiore non fa che ripetermi che se non avete manco due minuti per tagliarvi il pane da soli voi di città siete messi proprio male.
E poi ci sono quelli che vanno dal tabaccaio dietro l’angolo in macchina, e badate bene, io ero una di loro. Invece ora che cammino praticamente tutto il giorno, avanti e indietro per vigne, boschi, viottoli inghiaiati in mezzo agli orti e ho imparato che mentre si cammina succedono un sacco di cose, non riesco più a salire in macchina con tanta disinvoltura come fate voi di città per andare a trovare i vicini di casa.
Proseguendo nella lista delle cose che fanno arrabbiare la mia vocina interiore troviamo quelli che tornando da una giornata passata davanti al pc o da un match di Tennis, crollano come sacchi di patate sulla prima sedia che trovano ed esclamano: << come sono stanco>>.
La mia vocina con loro è davvero spietata. Diventa antipatica, maleducata, li apostrofa usando le più triviali, volgari espressioni dialettali…tratte dai più vari dialetti d’Italia!
Vi riporto un breve stralcio del suo sproloquiare, uno dei pochi che si possa trascrivere senza dover temere denunce per vilipendio alla religione:
EH NO, COCCO BELLO LA STANCHEZZA NON E’ COSA DI CUI TU POSSA PARLARE….
Ti fanno male I POLSI per caso? Nooooo e questo perché non hai passato la giornata a zappare….
Fai fatica a masticare la cena? Nooo e questo perché non hai dovuto tenere tutto il giorno le mascelle serrate per evitare di battere i denti dal freddo……
 La mia vocina va avanti su questo tono per un pezzo finché io la zittisco dicendo che conosco e rispetto la fatica di un lavoro intellettuale o di qualunque altra natura e quindi è inutile essere così sprezzanti sebbene…..sebbene concordi con lei che voi di città avete dolorosamente perso il senso di molte cose tra cui di cosa voglia dire  lavorare fino all’esaurimento fisico.
Ho paura che sia in atto nel mio corpo una sorta di mutazione antropo-fisiologica: ogni giorno mi spunta un nuovo callo, ogni settimana mi accorgo che le mie “c” sono sempre più scivolose e dolci come previsto dal dialetto toscano, il parrucchiere è un signore che vedo sempre più di rado e quando ritorno alla civiltà mi spavento per il rumore dei clacson e per le luci abbaglianti delle insegne al neon.
Cambiano, evolvono, si trasformano le mie convinzioni: prima dell’inizio di questa avventura credevo che progresso volesse dire trovare modi per fare le cose in meno tempo, con l’impiego della minor fatica fisica possibile. Ma da quando faccio le cose lentamente, da quando la maggior parte delle mie azioni quotidiane costano fatica, sono diventata più calma, più serena…non mi capita più di pronunciare quelle parole che nella mia precedente vita metropolitana erano comuni e quotidiane nella mia bocca come in quella dei miei amici e conoscenti: ansia, stress, angoscia, nervosismo e via dicendo.
Certo qui non è tutto facile, la pace bucolica non è sempiterna, in mezzo ai fiori ci sono anche le erbacce…ma di sicuro quando tra non molto tornerò alla mia vita di città, ai clacson, alle luci al neon, ai frullatori, ai megastore aperti ventiquattrore su ventiquattro….continuerò ad affettarmi il pane da sola perché ho imparato che ogni gesto ha un significato e che la pienezza, la ricchezza di una vita può essere proprio riempire di senso ogni cosa, ogni singola, piccola azione che compone il nostro quotidiano.
Ecco, la mia vocetta interiore proprio adesso mi sta facendo una domanda: vuole sapere se voi di città ci pensate spesso al senso di quello che fate, ma ci pensate davvero, lentamente, intensamente, profondamente...

venerdì 19 agosto 2011

Il rovescio della medaglia

Si, lo confesso, sono colpevole: ho bevuto una Coca-Cola. Ho fatto di peggio in realtà ho comprato l’insalata in busta del supermarket e ho buttato nella spazzatura il cavolo-verza biologico che veniva dai nostri orti. Lo so, sono un mostro, faccio schifo, mi vergogno di me stessa.

La Madre Terra mi punirà perché mangio il prosciutto già affettato nella vaschetta di plastica io che respiro ogni giorno aria pulita, io che contemplo ogni sera gli ettari di vigneti coltivati senza pesticidi, io che allevo animali allo stato semi brado nei boschi del Chianti.
 Va bene, allora diciamola tutta ok? Stasera mi sono bevuta una birra di troppo. È  per questo parlo e straparlo, o meglio scrivo e strascrivo. Sono serate come queste che hanno condotto al Watergate e all’Irangate….sono quelle sere in cui coloro che dovrebbero mantenere i segreti perdono il controllo.
E allora perdiamo il controllo e distruggiamo il paradiso. Da dove volete che inizi?
Inizierò col dire che persino qui dove il cielo è più blu e siamo tutti eco-politicamente corretti c’è il rovescio della medaglia; e il rovescio della medaglia che mi ha condotto dritta al banco delle bevande gassate è il cavolo-verza. Sul cavolo-verza voglio essere chiara: mi fa schifo. Mi hanno sempre fatto schifo sin dalla più tenera infanzia la zuppa di cavolo, la minestra di cavolo, il cavolo lesso e anche quello fritto. Ogni mattina S. la cuoca del nostro ristorante esce dalla cucina, discende alcuni scalini in pietra locale, entra nei riquadri dell’orto e inizia la raccolta delle verdure che gli serviranno per preparare i piatti del menù, in questa stagione l’orto è sovraccarico di primizie e S. ci regala generosamente tutto quello che abbonda, la roba è così tanta che spesso fare la spesa sarebbe inutile se non fosse….se non fosse che a seguire la natura non si può scegliere, si prende quello che c’è e questo è il mese del cavolo-verza. E poi c’è un altro problema serio da risolvere per una che lavora tutto il giorno e la sera torna a casa stanca morta: il cavolo-verza e tutti i suoi amici e colleghi dell’orto hanno bisogno di essere puliti, lavati, cucinati operazioni che, alla fine di una giornata, finiscono per consumare il poco tempo libero che mi rimane e che serve, ad esempio, a scrivere questo post.
E poi volete saperlo? Il cavolo-verza non ha un bell’aspetto come non ce l’hanno le carote o la rucola…il sapore si, il sapore è grandioso e addentare una carota qui da noi è un’esperienza mistica che ti fa chiedere: ma se QUESTA è LA CAROTA cos’è quella cosa arancione avvolta nel cellophan che ho mangiato fino a ieri? Ma all’aspetto la carota si presenta piuttosto piccola e spesso bucherellata e bitorzoluta. Dal momento che le nostre piante non vengono irrorate con gli antiparassitari ci sono tanti animaletti che  se le mangiucchiano e noi, di fatto, ci mangiamo quello che loro hanno lasciato. Se fossero solo i bitorzoli delle carote potrei anche chiudere un occhio, ma il vero problema del biologico è l’allevamento degli animali senza l’impiego di farmaci o preparati chimici. Da quando sono qui le nascite degli animali sono un evento raro e occasionale, le morti purtroppo sono molto più frequenti: abbiamo avuto pestilenze che hanno decimato i conigli, mali misteriosi che hanno ucciso i pulcini appena nati, pidocchi e acari che hanno attaccato i polli e maialini colpiti da polmonite. A questa “natura matrigna” che attacca con tanta frequenza le nostre povere bestie noi possiamo opporci solo con strumenti spuntati: rimedi naturali e medicinali omeopatici che, nella maggior parte dei casi, sono assolutamente inefficaci. Proprio ieri il nostro pollaio è stato colpito da un’epidemia di coccidiosi, una malattia abbastanza comune tra i pennuti che si cura tranquillamente con i sulfamidici. Ma noi i sulfamidici non possiamo darli e dubito che l’estratto di pompelmo salverà le nostre galline, non ci resta che disinfettare il pollaio e contare le vittime.
Insomma per farvela breve ieri sera me ne stavo andando a casa con la mia busta di cavolo-verza in mano e mi sono imbattuta in Brenda, la stagista americana arrivata da un paio di mesi per imparare i segreti della cucina toscana che tutta sorridente stava dentro al pollaio. Ora dovete sapere che Brenda ha proprio l’aspetto di una cresciuta a “pane e sulfamidici”: è alta almeno un metro e ottanta, le spalle larghe e ben formate, i denti bianchissimi e perfettamente diritti. Accanto a lei stava una delle nostre galline livornesi: quelle gallinelle bianche, piccole dalla cresta rossa….forse è stata un’allucinazione, forse è stato il caldo, ma ho avuto la netta impressione che la Gallina Livornese guardasse la Donna Sapiens Americana con l’aria decisamente incazzata. Probabilmente doveva aver intuito – l’intuizione dei polli si sa è cosa profonda e grandissima – che per avere quell’aria da donna bionica devono averti imbottito di chimica: antibiotici, vitamine, antibatterici e insomma farmaci e preparati di ogni genere….tutta quella chimica che ai nostri pennuti biologici che stramazzano al suolo stecchiti per una banale dissenteria è negata.
Ecco, dev’essere stato allora che ho  deciso di andarmi ad ubriacare ed è in memoria di tutti i polli e conigli caduti a causa di mali e disturbi tanto biologici quanto letali che sto bevendo stasera. Perché in ogni aspetto dell’esperienza umana io trovo che ci voglia misura ed equilibrio e che non si debba esagerare, mai neanche per uno scopo apparentemente nobile.
Perché mi sono chiesta dove sarei adesso se da piccola non mi avessero fatto le vaccinazioni obbligatorie o se mia madre avesse preteso di curare il mio morbillo con l’estratto di radice di rabarbaro, perché tutti coloro che predicano il ritorno a un’alimentazione eco-compatibile dovrebbero anche dichiararsi disposti a sacrificare le ferie per stare in mezzo all’orto sotto il sole d’agosto o a passare le serate dietro l’acquaio per ore con l’eco-grembiule di ordinanza a preparare cavoli, broccoli e lattughe secondo le ricette della nonna.
Perché mangiare è una questione culturale e la soluzione ai problemi di una società non può essere azzerare ciò che sappiamo per tornare semplicemente, stupidamente, ciecamente al passato….ci vuole di più di un cavolo-verza e ogni tanto ci vuole senz’altro una bella Coca-Cola ghiacciata.






sabato 13 agosto 2011

Non buttate via le erbacce 2


Ormai non posso più far finta di ignorarlo: quando il signor Leonardo mi vede una luce si accende nei suoi occhi nocciola dietro alle spesse lenti da miope. Mi viene incontro sorridendo, tutto agitato e prima ancora che io abbia avuto il tempo di dire che cosa mi serve il nostro pick-up aziendale è già stracolmo di chili e chili di merce a un prezzo stracciato che Leonardo ha amorevolmente messo da parte per me durante tutta la settimana.
Un’altra a quest’ora si sarebbe già fatta strane idee, ma io lo so che i sorrisi e le premure di questo simpatico grossista di frutta e verdura sulla cinquantina non sono per me sono per i miei maiali.
Sono entrata nel suo magazzino un pomeriggio di inizio estate: << salve vengo da un’azienda vicina>> ho detto << facciamo agricoltura biologica>> il signor Leonardo non s’è scomposto più i tanto, ha fatto passare la biro da un orecchio all’altro con aria scocciata: << eh allora? >> << no, niente…è che noi alleviamo maiali di cinta senese..>> è stato in quel momento che l’ho visto per la prima volta, il sorriso colmo di amore,brama e desiderio, perché il signor Leonardo ha capito subito che cosa volevo da lui: << venga, venga…>> mi ha detto fregandosi le mani mentre si dirigeva verso la cella frigorifera, e io l’ho seguito e ho visto. Ho visto qualcosa che non avrei mai voluto vedere a dire la verità ma che nonostante tutto è un’immagine di importanza storica, quelle scene che racchiudono in se un’epoca come le ragazzine in minigonna che svengono al concerto dei Beatles per gli anni ’60 ….ho visto i ragazzi di Leonardo, di ritorno dal giro di distribuzione per mercati e negozi che buttavano via la frutta e la verdura. La tiravano via dalle cassette coperte dal cellophane: pere, mele, banane, pesche, ortaggi gettati nella spazzatura solo perché appena più maturi o con una piccola imperfezione. Non sto parlando di prodotti putrefatti e marcescenti o di frutta coperta di vermi sto parlando di banane lievemente annerite in un punto o di pomodori troppo maturi per un insalata ma ottimi per fare la conserva…sto parlando di chili di roba da mangiare che stava partendo per la discarica, roba buona, calorie, fonti di vitamine che presto sarebbero state gettate a palate dentro un inceneritore.
<< Lo sai quanto mi costa buttarla via?>> Mi ha chiesto il signor Leonardo passandosi la biro sulla lingua e tirando fuori il suo immancabile taccuino sgualcito da commerciante << dai prova…di, dì un cifra…>> la cifra è consistente ma pare che non ci sia scelta: i supermercati, i piccoli negozi al dettaglio, la catena di distribuzione insomma vuole solo la frutta e la verdura freschissima, pulita, perfetta il resto va nella spazzatura: non esiste un mercato dei prodotti di seconda scelta magari per le mense, per le associazioni di volontariato o che ne so per le trattorie….niente, si butta via tutto. Come tutti i bambini cresciuti negli anni ’80 anch’io sono stata a suo tempo terrorizzata dalla frase:<< finisci le verdure che i bambini africani muoiono di fame>> come tutti i bambini degli anni ’80 pur solidale con i miei coetanei africani continuavo a rifiutarmi di mangiare gli spinaci. Adesso ho capito perché: inconsciamente dovevo aver intuito che il contributo più grande all’aumento della fame nel mondo non lo davo io con i miei disgusti verso i cavoletti di bruxelles o le prugne bensì mia madre quando si voltava sdegnata verso il fruttarolo e diceva: << ma quest’uva è troppo matura!>>. Ed è così che i miei maiali già facenti funzione di spazzini all’interno della nostra fattoria grazie alla loro insaziabile fame ora aiutano anche il signor Leonardo a fare pulizia all’interno del suo magazzino.
Quando il mio capo mi ha mandato da lui con precise istruzioni di chiedere la frutta di seconda scelta ho pensato, come sempre, che fosse un cretino: << Figurati quanto me la faranno pagare>> pensavo << figurati se danno via la frutta per i maiali così…va bhè che i maiali in estate hanno bisogno di vitamine, ma andargli a comprare la frutta come fossero cristiani mi sembra esagerato>>. Sbagliavo, non sapevo quello che il mio capo sapeva: al signor Leonardo arrivano ad avanzare anche venti, trenta cassette di merce…non mi chiedete quanti chili sono che mi viene il mal di testa per favore. Quello che so è che per stabilire un prezzo non ho dovuto neanche accennare una contrattazione, Leonardo ha alzato le spalle senza esitare: << dammi cinque euro e portati via tutto quello che riesci a caricare>>. Ho capito che se fossi stata solo un po’ più paracula lui quella frutta avrebbe finito per regalarmela. Per smaltirla gli toccherebbe pagare per la benzina, per il lavoro di quelli che la trasportano in discarica, la provvidenziale e incontenibile fame dei nostri suini gli toglie dalle spalle una bella rogna.
Stanotte ho fatto un sogno strano, inquietante e allegro a un tempo: i miei maiali invadevano Napoli. Sciamavano in branco a San Gregorio Armeno, al Rione Sanità, a Posillipo persino in Piazza del Plebiscito, guidavano una sorta di adunanza plenaria dei suinidi e grufando richiamavano a gran voce i loro simili o parenti prossimi: cinghiali, maialini rosa e domestici e persino i piccoli maialetti vietnamiti che da qualche anno in tante case vengono tenuti come animali da compagnia, insieme formavano un gruppo enorme che passando per i vicoli veniva salutato da scugnizzi e monelli i quali a loro volta si mettevano a correre e a vociare. Mentre i bambini giocavano e correvano i maiali si buttavano spavaldamente sulla monnezza di Napoli: con metodo e disciplina passavano in rassegna un quartiere dopo l’altro, mangiando tutto quello che riuscivano a masticare. Il resto: plastica, vetro, lattine, pezzi di legno e di lamiera veniva sminuzzato e macinato dalle grosse zanne dei cinghiali toscani, forti e vigorosi.
Ai commercianti e ai disoccupati, ai vigili urbani e ai camorristi, ai politici e ai cantanti neomelodici non restava altro che stare a guardare i miei animali che mettevano ordine nella loro città e i bambini vedendo gli adulti muti e attoniti, prendevano a canzonarli per la loro inettitudine.
E una volta spazzolati persino gli enormi cumuli di spazzatura che giacevano in discarica, nel cuore della notte, mentre la città dormiva, Sofia la più anziana delle mie scrofe attraversava col suo passo pesante tutto il centro storico per andare a sdraiarsi davanti al palazzo comunale, proprio sulla soglia dell’ufficio del sindaco che l’indomani recandosi come ogni giorno al lavoro se la ritrovava lì davanti intenta a divorargli lo zerbino. Con l’enorme naso da maiale prendeva ad annusare i pantaloni del primo cittadino e i suoi occhi grigi, seminascosti sotto le orecchie nere e flosce  chiedevano: << perché?>> Come sanno chiederlo solo gli animali e i bambini: senza rabbia ne arroganza, senza aspettarsi risposte ragionevoli, con l’innocenza dei semplici la cui anima non concepisce il male, ne lo spreco. 

sabato 30 luglio 2011

Radda in Chianti vs Massa dei Sabbioni

Massa dei Sabbioni - panorama


Ricordate quella pubblicità in cui un famoso giocatore di calcio sta accanto al suo doppio mostruoso? Cassano, se non sbaglio, accanto a un Cassano grasso, scarmigliato, con i denti marci ma con l’identica divisa calcistica dell’originale.
Io ripenso a quello spot ogni mattina mentre salgo in macchina  al lavoro: anche qui in Chianti infatti ogni cosa bella ha il suo doppio mostruoso.  Basta scollinare, superare la zona più turistica e suggestiva e tutto si trasforma pur restando nei suoi tratti fondamentali uguale.
Così ho deciso di rendere pubblico il confronto: Massa dei Sabbioni vs Radda in Chianti, ditemi un po’ che ve ne pare.
Massa dei Sabbioni è il posto dove ho trovato casa a un tiro di schioppo da San Giovanni Valdarno. Quando ci arrivai in macchina, ormai più di sei mesi fa, mi guardavo in giro chiedendomi: ma il Chianti dov’è? Negli anni ‘50 questo era un luogo dove abitavano i lavoratori delle vicine miniere di lignite adesso le miniere di lignite non ci sono più, in compenso c’è un’enorme centrale elettrica dell’Enel a pochi chilometri di distanza. Il panorama che si gode da una qualunque finestra di Massa è identico a quello della Springfield simpsoniana: due enormi torri di raffreddamento rilasciano nuvolette di fumo bianco-grigiastro. A Massa dei Sabbioni non c’è un negozio di alimentari, un tabacchi, un caffè, la chiesa è un brutto edificio anni ‘40 che a prima vista non ha niente di apprezzabile da mostrare, il circolo Arci è aperto solo di sera. Ci sono gli ulivi, ci sono le viti, ci sono le vecchie case toscane con i travi a vista e ci sono ovviamente i toscani o meglio i chiantigiani dentro. Ma tante di quelle vecchie case stanno cadendo a pezzi, lentamente, circondate da viti e ulivi malcurati, i fienili, le stalle sono ormai abbandonati e la piccola valle è punteggiata da gruppi di orrende bifamiliari costruite in serie gialle o arancioni, case decenti e nuovissime ma così prive di personalità e carattere che tranquillamente potrebbero essere trasportate in Umbria o in Molise per magia e non si noterebbe la differenza. In queste case abita gente che magari lavora altrove, gente che aveva il nonno minatore o  il papà impiegato alla centrale termoelettrica.

Radda in Chianti è sul versante senese, a pochi chilometri di distanza dalla mia azienda agricola. Un borgo medievale perfettamente conservato con le mura, la torre, il palazzo comunale adorno di stemmi medicei sulla facciata, un posto dove niente è lasciato al caso e tutto è pensato per il turista. Mi sono guardata intorno mentre passeggiavo per il corso principale e ho concluso che probabilmente in quel corso non abita più un solo raddese: le maggior parte delle case ben ristrutturate ospitano camere in affitto o bed and breakfast, i piani terreni che un tempo dovevano essere stalle o rimesse sono stati trasformati in ristoranti, esercizi commerciali, atelier che vendono artigianato locale, negozi di gastronomia e enoteche che traboccano di prosciutti di cinta senese e di bottiglie di Chianti doc.
Tutt’intorno ci sono gli ulivi e le viti e le vecchie case toscane con i travi a vista sul soffitto e scommetto che esiste una bella normativa comunale per impedire che questo splendido paesaggio  sia rovinato da qualche costruttore edile specializzato nella fabbricazione di villette a schiera fatte in serie gialle o arancioni.
Ora se per caso mi venisse in mente di chiedere a qualcuno di voi dove vorrebbe abitare in caso si trovasse a impazzire e decidesse dall’oggi al domani di fare il contadino e di trasferirsi qui dalla città credo che la risposta sarebbe abbastanza scontata.
Radda in Chianti - panorama
Ma la vera domanda che la mia mente assonnata rimastica alle sei di mattina quando mi avvio verso il lavoro è: perché Massa dei Sabbioni non è come Radda in Chianti? Perché questa gente vuole vivere nelle bifamiliari gialle o arancioni di rara bruttezza? Mentre voi convocate una tavola rotonda di economisti, antropologi, psicologi e agronomi io me ne sto qui, alla finestra a guardare il figlio dei vicini che lucida la sua immensa moto cromata in quella che una volta doveva essere l’aia di una casa colonica. Porta una di quelle magliette con le ali da angelo sulla schiena, ha le scarpe firmate, dietro alle sue spalle arriva lo zio sul trattore che trasposta balle di fieno: lui continua a lucidare gettandogli di sfuggita uno sguardo carico di disprezzo, scommetto che con i suoi vent’anni, su quel trattore non c’è  salito neanche una volta. Radda in Chianti e i suoi vigneti, i suoi oliveti, le sue cantine dove la sera si fanno cene e degustazioni è a pochi chilometri, oltre la collina, ma posso giurarci che il mio ragazzo sulla moto stasera se ne andrà verso il Valdarno, verso la pianura dove sulla stessa provinciale si allineano uno dopo l’altro centri commerciali e cinema multisala, discoteche, pub e wine bar. Suo zio invece, dopo aver faticato tutto il giorno se ne starà a casa, nella bifamiliare arancione, a guardare uno dei tremila canali della sua tv satellitare.  I miei vicini, l’avrete capito, non mi piacciono. Tra me e me li chiamo “I Mostri” e fatico a distinguerli l’uno dall’altro persi come sono in una numerosa tribù familiare di cui non sono riuscita ancora a cogliere le gerarchie parentali. E se devo dirla tutta non mi piacciono neanche gli americani che passeggiano beati per il corso di Radda in Chianti credendo che questo piccolo comune tirato a lucido per attirare i loro dollari sia reale.
Mi pare che entrambi, vicini mostruosi e turisti trasognati siano in cerca di qualcosa che non hanno e che non potranno avere mai, mi sembra che tutto sarebbe meno distorto se ognuno provasse a stare al suo posto: gli americani dentro gli wine bar e i raddesi dentro le case di Radda in Chianti….o no?

giovedì 14 luglio 2011

presa!

 I cacciatori, solitamente, si vantano. Siccome qui in Chianti qualunque maschio sopra i diciotto e sotto i sessant’anni è un cacciatore sono sei mesi che non faccio altro che sentire uomini vantarsi: << l’ho atterrato con un colpo solo…da sessanta metri….era grosso così…pesava tanto……andava così veloce che a mala pena sono riuscito a prendere la mira…>>. Io non mi vanterò. Dopotutto la caccia non mi piace, non sono nata in Chianti e l’ultima volta che ho controllato ero ancora femmina. Mi limiterò a riportare i fatti così come sono avvenuti, a darvi la notizia con obbiettiva essenzialità.
L’ho presa. Coloro i quali hanno perso un po’ di tempo a leggere il mio ultimo post sapranno a chi mi riferisco: ho preso Lei, l’Assassina di Elvis, la Sterminatrice di paperelle, la Rossa imprendibile e invisibile….insomma forse non proprio lei, magari sua sorella, o sua figlia, o sua zia.
Comunque, ho preso una volpe.
Il giorno successivo alla sua ultima visita – bilancio a fine visita: cinque papere scomparse e il cadavere orrendamente scempiato di un papero chiamato Elvis abbandonato in mezzo al bosco – abbiamo piazzato all’angolo di un recinto una trappola essenziale ma efficace. La trappola è lunga circa un metro e mezzo, un piccolo tunnel di rete al cui centro c’è l’esca posizionata su  un supporto collegato alle aperture del tunnel: appena l’animale tocca l’esca scattano due ganci metallici che chiudono gli accessi lasciandolo all’interno vivo, incolume ma prigioniero.
Per settimane quella trappola è rimasta vuota. Ogni volta che passavo in quei pressi, buttavo un’occhiata per vedere se per caso la volpe ci fosse cascata….niente. Fino a che ho smesso di controllare. << La volpe è troppo furba>> mi dicevo << probabilmente è capace di sentire il nostro odore sulla rete metallica della trappola, probabilmente non ci cascherà mai>>. E poi un giorno ho alzato gli occhi per caso verso l’angolo del recinto e l’ho vista. Era immobile all’interno della gabbia/trappola ormai chiusa. Mi sarei aspettata che una volta dentro prendesse a dibattersi, a camminare avanti e indietro e invece no, stava seduta al centro della gabbia, ferma. Non aveva neanche mangiato l’esca che avevamo piazzato per lei. Sembrava quasi che ci fosse entrata di sua volontà lì dentro, pur sapendo che di trappola si trattava, per farmi un favore e ora volesse dirmi con quel suo starsene ferma:<< hai visto? Sei contenta? Sono venuta….e ora che facciamo?>>. Mi sono avvicinata: aveva il pelo fulvo ma era piccola più di quanto mi aspettassi tanto che ad una prima occhiata ho pensato si trattasse di un cucciolo. Era bella a vedersi con due occhi giallo ambrati e le orecchie grandi. Sembrava tranquilla, quasi composta in una posa carica di fierezza e dignità ma appena mi sono avvicinata un po’ di più ha iniziato a mostrare i denti e a dibattersi e faceva uno strano verso, ridicolo, una specie di schioccar di lingua o di sbattere di mascelle….una cosa davvero buffa e per niente adeguata ad un feroce predatore. Nei giorni precedenti i miei colleghi-uomini-cacciatori avevano fatto svariate ipotesi su che fine far fare alla volpe una volta catturata: affogarla nella cisterna dell’acqua, caricarla in macchina e liberarla a trenta chilometri di distanza….le opinioni erano discordanti. Ho visto passare a una ventina di metri di distanza uno di loro, uno della fazione “esiliamola in terra straniera” ho gridato: << abbiamo preso la volpe>>
<< aspetta>> mi ha risposto << il tempo di andare a sistemare una faccenda e arrivo>>. A sentirci urlare la volpe si è agitata ancor di più, continuando a mostrarmi i denti e a fare quel suo verso comico.
Ho deciso che non avrei aspettato nessuno. Ho avvicinato la gabbia al margine del bosco e stando ben attenta a non rischiare che uscendo corresse nella mia direzione – le volpi come tutti gli animali selvatici possono con un morso attaccare la rabbia – ho sfilato la lamiera che chiudeva la trappola lasciandola libera.
Si, lo so, sono una pappa molla. Avevo giurato di vendicare Elvis e tutte le sue cinque mogli…avevo giurato di prendermi la rivincita contro la volpe che scaltra, spietata, aveva violato i miei confini e ucciso i miei animali lasciandomi lì con un palmo di naso.
Ma che volete farci? M’è presa così. A vedermela lì, magra, piccola, impaurita con i segni della fame sul muso appuntito e nervoso, mi sono detta: << poveraccia, che brutta vita dev’essere quella della volpe>>. Io vivo in una specie di purgatorio bucolico fatto di lavoro e splendidi tramonti ma nel paese dove abito non c’è neanche un bar, il televisore prende solo tre canali, la connessione internet è ferma all’era pre-adsl, quando gli uomini mangiavano carne cruda e  facebook non era stato inventato.
Date le condizioni ambientali una come me, che divorava un paio di quotidiani al giorno è ridotta a guardare il tg quando capita…più o meno due volte alla settimana.
Ormai le cose le so “per sentito dire”. Ho sentito dire che sul fronte economia non ci sono buone notizie. Il volume altissimo della tv accesa dal mio vicino ieri sera mentre io mi lavavo i denti alle nove e mezza prima di andare a letto mi ha permesso di sapere che la borsa italiana è stata “attaccata” da manovre speculative, che i mercati finanziari non ci vedono tanto di buon occhio, che Tremonti è andato in parlamento con una manovra di lacrime e sangue, che l’Italia viene accostata sempre più spesso alla Grecia, all’Irlanda e al Portogallo e non per la cordialità della popolazione e gli splendidi paesaggi che condivide con questi tre paesi europei.
La crisi fa paura, i miei amici perdono il lavoro, io stessa sono stata disoccupata per più di un anno…..ma la paura infondo è una questione di prospettiva. Con la volpe è stato così. Ciò che mi aveva fatto paura, che mi aveva suscitato sentimenti di frustrazione e di rabbia…il mostro venuto di notte a uccidere e terrorizzare…..era un animaletto ridicolo e affamato, misero, disgraziato e ramingo. Certo, era pur sempre un predatore, poteva uccidere e ferire….ma non riusciva a incutermi un timore che fosse venato di rispetto come avrebbe fatto un lupo ad esempio, o un leone magari…questione di prospettiva.
<< Ma che hai fatto? L’hai lasciata andare?>> Mi ha chiesto il mio collega di fronte alla trappola vuota: << ma si>> ho risposto alzando le spalle << era solo una volpe>>. 

domenica 3 luglio 2011

e poi arriva la volpe...

Gli amici di Radda in Chianti piangono la scomparsa di Elvis
caduto nel vano tentativo di difendere le papere e l'onore!

 E poi arriva la volpe. Ti avevano detto che gira nei boschi, che probabilmente la sua tana non è lontano, che negli anni passati ha fatto strage di animali nella nostra come nelle altre fattorie. Te l’avevano detto si, te l’avevano detto tutti e tu avevi diligentemente controllato le recinzioni, chiuso gli animali nei loro ricoveri la notte…ma poi i giorni, le settimane, i mesi, passano e lei non arriva. E allora, ti dici, siamo più furbi noi della volpe, allora la volpe è solo uno spauracchio per spaventare i pavidi, allora è una favola, una leggenda di questi vecchi contadini chiantigiani, la volpe che entra nel pollaio, la volpe che va a rubare l’uva come nelle favole di Fedro…la volpe per te è solo quella che a scuola coloravi nell’abbecedario per imparare a compitare la lettera V. La volpe ormai non si insinua più nelle fattorie a rubare le galline. È un archetipo, ti ripeti, un “modo di dire” come “ gallina vecchia fa buon brodo” e chi è oggi che si mette a fare il brodo con una vecchia gallina?
Insomma con suprema, contemporanea arroganza ti rifiuti di credere che la venuta della volpe sia un evento probabile oltre che plausibile…..e poi un sabato pomeriggio, sul tardi vai a chiudere gli animali per la notte e ti accorgi che c’è qualcosa di strano. Le pecore stanno belando incessantemente al contrario di tutti gli altri animali della fattoria che sono silenziosi e immobili. Sarà un caso, sarà una combinazione ma anche l’aria è ferma, il cielo pieno di nuvole, una di quelle giornate dove tra un minuto inizia un temporale…e i minuti passano ma la pioggia non arriva. E quando arrivi nel recinto delle papere i tuoi stupidi arroganti neuroni contemporanei non riescono a capire subito che cosa è successo, i tuoi stupidi, arroganti neuroni sono abituati a valutare e ponderare scenari comprensibili e intellegibili, scenari dominati da leggi positive e cartesiane, i tuoi stupidi arroganti neuroni allevati a pane e serie tv alla C.S.I non sanno che fare di fronte a un recinto chiuso, privo di aperture o lacerazioni dove fino a poche ore prima giravano indisturbate cinque paperelle e adesso di loro non c’è nessuna traccia.
E mentre sei lì a chiederti dove siano finite vedi il cadavere di Elvis steso a terra in mezzo a un mucchio di bianche piume. No, il re del Rock non è venuto fino in Chianti per morire in mezzo alle nostre papere dopo aver simulato più di trent’anni fa la sua prima morte, Elvis era solo il papero bianco e nero così ribattezzato  in virtù del suo ciuffo di piume dritte sulla testa. Mi piace pensare che Elvis abbia provato a difendere la famiglia ma che sia caduto onorevolmente data anche la sua scarsa prestanza fisica: era piuttosto obeso il nostro papero come il suo omonimo nell’ultimo scorcio di carriera e probabilmente per questo la volpe si è evitata la fatica di portare i suoi resti fuori, fino alla tana dove i suoi cuccioli aspettavano la cena.
A parte il cadavere di Elvis e qualche piuma qua e la non è rimasta traccia di questo crimine: nessun impronta sul terreno, neanche una macchiolina di sangue. Il giorno seguente, come una cretina, ho passato la mattinata a controllare tutto il perimetro di reti che delimitano il bosco dove stanno gli animali: passo passo, cercavo il buco, la breccia dalla quale la maledetta volpe poteva essere entrata. Niente. Neanche un forellino. M. il grande M, cacciatore, coltivatore e muratore oltre che mio maestro di vita che mi ha insegnato a murare a secco e a zappare mi ha guardato divertito scandagliare la recinzione e si è messo a ridere: << La volpe è rossa come il diavolo>> ha detto con lo stesso sguardo furbo di quando mi vede china nei riquadri dell’orto a strappare le erbacce e dice << l’orto vuole l’uomo morto>>. Alla fine non era neanche il dispiacere per le papere crudelmente assassinate… era che mi bruciava, ecco, mi bruciava essere stata fregata e non riuscire a capire come, mentre M. sornione se la rideva ho capito chiaramente che dietro al mio disappunto c’era qualcos’altro.
Il fatto è che ho avuto una strana sensazione di  deja vu quando sono entrata in quel recinto e lentamente ho realizzato l’accaduto: come se non mi fosse nuova quest’esperienza.  
Ho chiuso gli occhi per un attimo, solo un attimo e mi sono accorta che si, l’avevo già provato: quel senso di panico e smarrimento, nel non sapere, nel non capire COSA ti sta accadendo, da dove arriva il pericolo e perché. È stato il giorno in cui ho perso il lavoro, il MIO lavoro, quello per cui avevo studiato e mi ero formata, il lavoro che per me non era un’avventura occasionale da B.R.A ma un motivo di realizzazione e di soddisfazione, quel lavoro che la crisi economica e la follia di un capo incapace di gestire le risorse a sua disposizione mi hanno portato via.
In quel giorno come in questo non sono riuscita a capire la dinamica dell’accaduto e sono rimasta lì a bocca aperta senza sapere che fare. Cercavo anche allora  una breccia, un buco nella rete cercavo di capire cosa non aveva funzionato o anche dove avevo sbagliato….anche se sapevo benissimo di non aver sbagliato niente. Perché tu puoi fare anche tutto giusto: chiudere le recinzioni, serrare i cancelli, controllare il perimetro e tenere gli animali al riparo….ma tutte queste buone pratiche ti danno solo l’illusione di poter controllare qualcosa di incontrollabile. La verità è che la volpe è un predatore, un animale programmato per uccidere e cacciare e nonostante tutto il tuo impegno nel suo modus operandi ci sarà sempre qualcosa che ti sfugge, qualcosa di imponderabile e piuttosto inquietante che noi uomini non riusciamo a vedere.
Ed è lo stesso per la mia generazione: ci avevano detto che se facevamo i compiti, prendevamo la laurea, affrontavamo senza fiatare stage gratuiti e master costosissimi alla fine sarebbe arrivato il premio, il passo in avanti nella scala social evolutiva, il piccolo passo che i nostri genitori non avevano potuto – in maggioranza – permettersi: non solo un lavoro sicuro, ma un lavoro che ci piaceva e ci gratificava. Ma poi è arrivata la volpe e siamo rimasti senza gratificazioni ma anche senza lavoro e senza futuro….e non è colpa nostra, non siamo noi ad aver dimenticato un cancello aperto o ad aver fatto entrare un pericoloso predatore. Qualcosa ci è sfuggito perché nessuno ci aveva preparato a coglierne i segni e non c’è niente che possiamo fare adesso se non imparare a “tenere botta” e incassare.
Dicono che la volpe sia capace di abbaiare come i cani, io non l’ho mai sentita da quando lavoro quaggiù. È un suono sinistro, mi hanno raccontato, a metà tra un lamento e un ululato, è un suono che mette freddo e fa paura. Va bene terrò botta e me ne starò buona perché questa volta ha vinto lei anche se non so come è riuscita a violare le nostre difese, per consolarmi della perdita di Elvis sto imparando a guidare il trattore e ad ogni buon conto all’angolo della recinzione ho piazzato una bella trappola con tanto di esca, magari chissà la prossima volta vinco io, magari riesco a prenderla, la volpe, o almeno a capire come riesce a entrare e a portarsi via cose mie, mie per merito e per diritto. 

venerdì 17 giugno 2011

spollonando spollonando...




<< Domani iniziamo a spollonare>> mi hanno detto un paio di settimane fa in pausa pranzo e io ho sorriso e annuito. Ho imparato che sorridere e annuire anche quando non so di che cavolo stiano parlando i miei colleghi aiuta il mio super-io a non uscire distrutto dalla spiacevole esperienza di non sapere di che cavolo parla la gente intorno a te. Del resto, nonostante i miei avi contadini, io di agricoltura ne so quanto di astrofisica e i miei colleghi lo sanno, questo non impedisce loro di prendermi in giro ogni volta che io chiedo: << ma spollonare che vuol dire?>>. Ho imparato a sorridere e ad annuire, ho imparato a sgattaiolare di soppiatto in ufficio per consultare un vecchio manuale di agronomia che, fortunatamente, ha una specie di dizionario in appendice.
Spollonare: “Ripulir le viti troncando i falsi POLLONI, ed anche rompere il capo de’ tralci non destinati a formar la potatura dell’anno seguente” recita il mio manuale. Un periodare ottocentesco degno del Carducci che richiama scene bucoliche di  vigneti dalle foglie baciate dal sole di un tardo meriggio estivo. Ed è così che la mattina seguente mi sono presentata in vigna tutta pimpante, pronta ad affrontare la  spollonatura e chiedendomi quali complesse tecniche e strumentazioni si dovessero usare per spollonare. Dopotutto lavoro in una fattoria ma degli anni duemila: abbiamo il trattore, il decespugliatore e ogni sorta di macchinario grande o piccolo per i lavori più diversi di giardinaggio o di agricoltura. Allora come si fa a spollonare? Ho chiesto al mio capo con il mio miglior sorriso aspettandomi di ricevere un attrezzo meccanico di qualche genere che ci aiutasse a togliere dalla pianta della vite i tralci in eccesso. Il mio capo ha sorriso di rimando, si è chinato verso il tronco nodoso della pianta all’inizio del filare ha stralciato con le mani i giovani rami alla base:<< a spollonare si fa così>> ha detto e mi ha allungato un paio di guanti. Ho preso i guanti e ho osservato la vigna alle sue spalle grande almeno quanto un campo di calcio: ho calcolato che l’azienda possiede più o meno altri dieci campi di calcio coltivati a vigneti, ho pensato per un attimo a mia nonna che probabilmente “spollonava” senza guanti e mi sono messa al lavoro.
A metà pomeriggio avevo “spollonato” solo un filare e mezzo, le scene bucoliche e il fascino delle foglie di vite baciate del sole erano un pallido ricordo, i versi del Carducci mi riecheggiavano stolidamente nella testa come una noiosa cantilena di cui si è perduto il  finale, sudavo, avevo mal di schiena e stavo pensando a un modo rapido e pulito per uccidere il mio capo.
Non era per il mal di schiena, non era per il sudore della mia fronte era per l’apparente insensatezza di quello che stavo facendo che una rabbia omicida mi saliva dallo stomaco al cervello: ci doveva essere un modo più rapido e veloce per fare un lavoro tanto noioso. La stanchezza e il caldo mi facevano sognare la “macchina per spollonare”: bella, grande, lucida, da impugnarsi come un fucile mitragliatore, piena di pulsanti luminosi e di bottoni scintillanti, il miracolo della tecnica che quel cretino del mio capo non aveva comprato, ci potevo scommettere, solo per tirchieria. Sono stata sul punto di andarglielo a dire un paio di volte, ma poi è successo qualcosa. Ho smesso di pensare e ho iniziato solo a guardare mentre lavoravo. E allora ho visto che alcune piante avevano delle strane macchie sulle foglie, che c’erano viti più grandi e viti più piccole e che la loro crescita dipendeva dal punto più o meno esposto al sole dove erano posizionate, e ancora ho visto quali piante avevano bisogno di essere sistemate intorno al filo di acciaio lungo il quale si attorcigliano i rami rampicanti, ho visto dove crescono le erbacce e quali e ho visto tante varietà diverse di insetti di cui non sospettavo neanche l’esistenza. E poi si è messo a piovere e tutte le cose hanno preso l’odore, il colore, il rumore della pioggia. A me non è rimasto che uscire dalla vigna e andare al riparo a guardare, braccia incrociate, la pioggia che cade. Questa della pioggia è un’altra cosa che non capivo quando sono arrivata qui: cosa si fa quando piove? Chiedevo – niente si guarda piovere- mi veniva risposto. La mia arrogante mente di città non concepiva che un po’ di pioggia fermasse il lavoro umano: in un ufficio, in una fabbrica si lavora anche se piove “il tempo è denaro” ma qui  Il concetto di tempo è diverso, credo.
Le macchie che ho visto sulle foglie delle viti sono una malattia che dovremo curare, il diverso accrescimento delle piante che ho notato è stato oggetto di discussione, i trattoristi hanno iniziato a nebulizzare il rame nelle vigne e noi abbiamo dovuto sospendere la spollonatura; a me è rimasta l’impressione che finire velocemente il lavoro non fosse la cosa più importante.
Mia nonna ha superato da un pezzo gli ottant’anni e non se la passa troppo bene: ha avuto due ictus, una frattura dell’anca, vive tra letto e sedia a rotelle conservando un cuore di ferro e un cervello ancora discretamente lucido. Vive di piccole cose: si sveglia e ci racconta i suoi sogni che sono sempre surreali e fantasiosi pieni di animali e paesaggi fantastici. Ha lavorato la terra per gran parte della sua vita e adesso qualcuno si chiede se non soffra nell’essere ridotta a un’esistenza tanto monotona e sedentaria.
L’ho guardata nel corso della mia ultima visita: no, mia nonna non soffre per queste cose. Non ha come tanti, troppi miei coetanei la smania di fare qualcosa, essere qualcuno, andare da qualche parte, non l’ha mai avuta neanche quando godeva di miglior salute. Non conosce la fretta, l’ansia, lo stress, non conosce l’ossessione di trovare il modo più rapido di portare a termine un lavoro. Probabilmente conosce quella particolare sensazione che io ho sperimentato in mezzo ad un vigneto: quando smetti di pensare e inizi a guardare e la parola “ io “  diventa solo una parola e non più il monarca assoluto  che governa la tua coscienza.
A mia nonna ho detto che da quando lavoro in una fattoria ho smesso di fumare mentre prima non facevo che accendermi una sigaretta dietro l’altra:<<prima o poi voi giovani dovrete accorgervene>> mi ha detto  << la cosa migliore che il mondo può fare è tornare all’agricoltura>> nella sua voce c’era un tono lievemente canzonatorio….ma neanche poi tanto. 

domenica 12 giugno 2011

Quarto stato

Il mio vecchio capo era solita portare eleganti decoltè con il tacco a spillo numero 37. Il mio nuovo capo calza scarponi antinfortunistici o stivali di gomma e sospetto che il suo numero si aggiri intorno al 45.
Il mio vecchio capo frequentava, per motivi di lavoro, musei e gallerie, sale da conferenza e da concerto.
Il mio nuovo capo per lo più frequenta la vigna, l’orto e ogni tanto fa un salto nel bosco a trovare i maiali, oppure sale sull’escavatore per sterrare qualche sentiero.
Sarebbe interessante raccontare per quali strane, bizzarre, circostanze biografiche io ho finito per avere a che fare con due responsabili del personale tanto diversi. Ma oggi mi sono improvvisamente accorta che le loro differenze si riducono a pochi dettagli esteriori: scarpe col tacco contro anfibi chiodati, smalto laccato contro peli sul petto, portatile e blackberry contro ruspa e trattore….per il resto sono uguali.
Il mio nuovo capo, come il vecchio parla di noi come di preziosi collaboratori entrambi evitano di usare parole come dipendente  o operaio.
Nella mia esperienza pluriennale come lavoratrice precaria con i contratti più diversi non ho mai, dico mai, trovato un capo che si sia seduto davanti a me all’indomani dell’assunzione per mettere in chiaro quali erano i miei doveri e quali i miei diritti.
Che indossi un tailleur elegante o una vecchia camicia a scacchi il capo se la gioca sempre sul filo di un’irritante ambiguità. Si mantiene sul generico e sul vago: chiede “flessibilità” senza specificare in che misura e così qualche mese dopo ti ritrovi a cambiare continuamente turni di lavoro, lavorare un week end su due, fare ore di straordinario senza che ti vengano pagate.
Dice frasi che all’inizio ti sembrano sensate, cose come: <<Dobbiamo imparare a lavorare adottando l’ottica dell’azienda, curare i dettagli, fare bene un lavoro senza preoccuparsi del tempo che ci vuole…e l’azienda valuterà l’impegno di ognuno che sarà ripagato con premi e gratifiche quando i profitti aumenteranno>> che poi scopri di dover tradurre: << ti pagherò gli straordinari il meno possibile ti chiederò di lavorare anche nove o dieci ore il giorno….se accetti questo sistema di buon grado, non ti lamenti, non fai comunella con i tuoi colleghi per cambiare modo di lavorare…allora può darsi che a fine trimestre ti arrivi un premio in nero fuori busta paga, altrimenti andrai a ingrossare le fila dei disoccupati>>.
Le lingue straniere non sono mai state il mio forte ma “il verbo del capo” l’ho imparato così bene che potrei fare traduzioni simultanee, vi faccio un altro esempio:

IL CAPO: << ci piace lavorare con ragazzi giovani, anche senza esperienza perché così possiamo usare il loro entusiasmo e la loro voglia di fare… e da noi vi facciamo imparare gratis quello che in altri posti costa soldi in corsi di formazione>>

TRADUZIONE: << assumo giovani inesperti perché è più facile chiedere loro ore in più, massima disponibilità, obbedienza alle regole aziendali. Un professionista già formato non solo costa di più in termini di stipendio ma rompe le scatole: perché lui sa cosa fare e come farlo, perché ha sviluppato un senso critico, una propria opinione sulle cose e non si piegherà facilmente ad ogni capriccio e ad ogni mia richiesta>>

 Potrei andare avanti per ore, potrei descrivervi nei dettagli la discussione che ho avuto qualche giorno fa con il mio capo in cui io traducevo dall’ “aziendalese” al linguaggio dell’operaio comune ogni sua frase….ma infondo non sarebbe molto interessante. Sono sicura che questi piccoli aneddoti sono esperienza comune di tutti i miei coetanei precari, come sono certissima che la mia protesta è stata inutile e mi toccherà lavorare una domenica su due per i prossimi tre mesi.
Se proprio devo dirla tutta ho smesso anche di avercela con il capo. Lui fa il suo mestiere che è quello di ottenere dai dipendenti il massimo profitto con il minimo investimento…non è un bel mestiere sfruttare le persone in un modo o nell’altro. Quello che ho trovato davvero sconcertante, in quest’azienda come in tutte le altre dove ho lavorato, è il rapporto con i miei colleghi. Vittime perfette di un’altra delle “regole d’oro” dell’ottimo gestore delle risorse umane ovvero il buon vecchio dividi et impera, ognuno di noi è stato preso, nei primi giorni dopo l’assunzione sotto l’ala del capo ad ognuno sono state spiegate regole e consuetudini in separata sede….il capo ha fatto a tutti il suo “discorsetto motivazionale” e la maggior parte di noi l’ha recepito così bene che ognuno se ne sta sulle sue, chiuso, isolato, sospettoso.
In pausa pranzo, nei momenti di sosta o di riposo i miei colleghi parlano di tutto: di calcio, di politica, del tempo e di cosa faranno nel week end….nessuno parla mai del suo contratto però, nessuno chiede mai agli altri chiarimenti su quello che funziona e su quello che non funziona e ovviamente nessuno critica il capo. Non abbiamo il minimo istinto a considerare le nostre condizioni di lavoro un interesse collettivo: persino io ho discusso con il capo da sola, senza pensare a coinvolgere i miei colleghi, anzi se devo dirla tutta mi guardo bene dal coinvolgerli; non vorrei ci fosse qualcuno che ha recepito il “discorsetto motivazionale” con troppo entusiasmo e che considera uno dei suoi doveri riferire al capo che io mi lamento e rompo le scatole…
Ed è così che, dopo un rocambolesco giro di pensieri a ruota libera, possiamo tornare al punto di partenza: i miei capi si somigliano nonostante le notevoli differenze del loro look e, cosa ancor più inquietante, si somigliano le condizioni salariali e contrattuali del mio vecchio lavoro e del mio impiego attuale.
Nelle Tesi di aprile di Lenin, le direttive politiche che il leader bolscevico dettò all’indomani della rivoluzione di Ottobre, c’era scritto più o meno: << ad ogni lavoratore dovrà essere corrisposto uno stipendio che non superi la retribuzione media di un buon operaio>> laddove ha fallito il comunismo trionfano i neo-capitalisti di fine millennio. Non importa che tipo di lavoro fai: se stai otto ore dietro un pc o chino in un campo a seminare ortaggi, ormai a determinare i diritti contrattuali che ci spettano sono la nostra età e la natura del nostro contratto non certo le nostre capacità o esperienze.
Nel salotto di casa mia è appesa una vecchia riproduzione del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, comprata ad una festa dell’Unità più di trent’anni fa. In ogni casa in cui ho vissuto, sin da bambina, il Quarto Stato è sempre stato appeso in salotto. Quarto Stato in salotto, Che Guevara in corridoio, le Lettere dal carcere di Gramsci in libreria….indovinate per quale partito votava mio padre?
Quand’ero piccola i contadini e gli operai di Quarto Stato mi facevano paura. Alcuni di loro, quelli nelle ultime file, erano solo ombre, sagome abbozzate, senza faccia. Il bambino che tiene in braccio la donna in prima fila mi sembrava deforme, malato, e tutto il quadro mi sembrava troppo buio, tetro, triste. Un giorno mio padre mi fece notare come il buio, i colori scuri, caratterizzassero solo lo sfondo del quadro, le ultime file di operai e contadini, mentre la luce illuminava pienamente i tre personaggi in primo piano. Allo stesso modo le facce amimiche, senza lineamenti erano sul fondo, nella massa indistinta, mentre tutti quelli più vicini avevano espressioni cariche di fierezza e dignità: << è perché vengono avanti>> mi spiegò <<avanzano dal buio dell’ignoranza verso la luce della conoscenza>> qualcuno probabilmente doveva averlo invitato a quelle barbose assemblee di partito alla “Berlinguer ti voglio bene”, il titolo doveva essere “Arte e rivoluzione, quali sviluppi possibili? A seguire dibattito…” però quello che mi disse mi fece passare per sempre la paura di quel quadro: << se fossero da soli se ne starebbero fermi nel buio, non saprebbero in che direzione andare ma sono tanti e sono insieme…quelli in prima fila hanno indicato loro una strada possibile e ora vengono tutti avanti>>.
Un’immagine singolare mi ha attraversato il cervello mentre discutevo di ferie e straordinari con il mio nuovo capo: i lavoratori di Quarto Stato fermi, immobili nel buio. Erano vestiti “primo Novecento” come nel quadro originale ma alcuni avevano le cuffie di un Ipod nelle orecchie, altri parlavano al cellulare, altri ancora smanettavano su un pc portatile. Tutti chiacchieravano o cantavano a voce altissima facendo un gran casino, ma si ignoravano l’un l’altro ognuno chiuso in un suo mondo privato, inaccessibile. E finalmente ho capito nel profondo la differenza tra un prezioso collaboratore e un operaio o un contadino.
I preziosi collaboratori del terzo millennio fanno gli interessi del padrone e se ne stanno da soli, immobili al buio, gli operai e i contadini del vetusto Novecento cercavano di fare i propri interessi e cercavano di farli insieme, avanzando lentamente un passo dopo l’altro verso la luce. 

martedì 17 maggio 2011

La popolazione locale

Questa è la storia del Mitraglia.
Per motivi di riservatezza abbiamo modificato il suo soprannome – grazie al quale è notissimo a tutti gli abitanti del suo chiantigiano borgo natio - ma vi assicuriamo che “Mitraglia” conserva intatto il senso di quel soprannome: quello di descrivere la sua voce roboante, scoppiettante, che parla a raffica producendo un incessante fiume di parole.
Il Mitraglia parla mentre lavora, mentre mangia, mentre si riposa. Il Mitraglia parla a voce alta e spesso, quando qualcosa non va, bestemmia. Ma il suo bestemmiare, come il suo incontenibile eloquio del resto, ha qualcosa di gioioso, di provocatorio e scanzonato: le bestemmie del Mitraglia sono piene di inventiva e di ironia e raffigurano la Madre di Gesù insieme a tutti i Santi del paradiso in atteggiamenti ridicoli più che blasfemi; insomma la bestemmia è una delle tante prove di inventiva e abilità nelle quali si cimenta. Del resto bestemmiare in Toscana per gli uomini di una certa età e condizione è qualcosa che non ha minimamente a che fare con la religione, piuttosto è un esercizio verbale, un divertimento linguistico come gli stornelli romani e un segno sicuro di virilità e prestigio.
Ma tornando al Mitraglia lui parla di se in terza persona, inizia molte frasi così:“Il povero Mitraglia”. E d’ora in avanti anche noi lo chiameremo in questo modo, come lui stesso ama definirsi.
È difficile stabilire con precisione quale sia la professione del Povero Mitraglia. Lui stesso dichiara di essere stato assunto in Comune tramite regolare concorso molti anni fa, ma ormai il suo impiego al Comune è solo part-time, il Povero Mitraglia ha da fare altre mille e mille cose e non può dedicarsi a servire come impiegato comunale i suoi concittadini a tempo pieno. Il Mitraglia si intende di idraulica, di edilizia e sa guidare praticamente qualunque mezzo a quattro ruote o cingolato: dal trattore all’escavatore, passando per la pala meccanica e la ruspa.
Il povero Mitraglia, è quasi superfluo dirlo, ha origini contadine e una gran passione per la caccia al cinghiale. La sua famiglia, in particolare uno zio pare anche lui grande bestemmiatore, non gli ha lasciato che pochi olivi ai piedi di una collina di proprietà della curia e il Povero Mitraglia da ragazzo non ci badava più di tanto a quegli olivi:<< ero un cavallo pazzo>> dice di se e di quel tempo. Il termine tecnico credo sia “scapestrato” perché il povero Mitraglia è un istintivo e prima del concorso comunale non si curava granché di lavorare; di studiare poi neanche a parlarne: come fa il Mitraglia a stare fermo in un banco cinque, sei addirittura sette ore? Follia!
Il Mitraglia si deve muovere, andare in giro, offrire il caffè agli amici del bar, informarsi sulla salute e la situazione sentimentale e patrimoniale di ogni suo lontano conoscente….sono impegni a tempo pieno anche questi!
Per dovere di cronaca siamo costretti a precisare che le notizie a noi pervenute sulla biografia del Povero Mitraglia sono frammentate e lacunose, per cui ignoriamo che cosa sia accaduto tra la fine della scuola dell’obbligo e il famoso concorso in Comune. Sospettiamo comunque che qualcuno -forse un padre o un fratello - l’abbia preso sonoramente a calci in culo e l’abbia mandato a lavorare cosa che ha dato i suoi frutti: il Povero Mitraglia è un gran lavoratore e anche un buon coordinatore quando deve far lavorare gli altri.
Comunque sia, gli anni passano e il Mitraglia vince il concorsone, mette su famiglia e improvvisamente si ricorda di quei venti o trenta olivi dello zio.
Sopra quegli olivi, proprio sulla sommità della collina, c’è un vecchio fienile, cadente, abbandonato. Il Mitraglia va sul posto, bestemmiando bestemmiando passa in rassegna tutti i lavori che andrebbero fatti: aprire una strada sterrata, disboscare, ristrutturare il fienile cadente, sistemare i fiori e le piante…e d’improvviso mentre si aggirava inquieto in mezzo ai rovi e alle erbacce la vede: proprio dietro alla casa, ormai nascosta dalla vegetazione c’è una grande quercia dal fusto contorto e deformato. Al Mitraglia sembra che quella quercia gli dica:<< potami, curami, toglimi di torno tutte queste erbacce, io sono una quercia, una pianta fiera, maestosa ti pare giusto che me ne stia quassù dimenticata e abbandonata?>>
Il Povero Mitraglia comincia a chiedere, informarsi, brigare. Chiede agli amici al bar, chiede in Comune: la Chiesa non sa che farsene di quella collina, una società che acquista terreni in Chianti per costruire case vacanze per stranieri c’ha messo gli occhi sopra e se non si sbriga…..Il Povero Mitraglia comincia un’estenuante lavoro di imbonimento dei suoi vicini d’oliveto: due vecchietti che hanno in usufrutto una parte della proprietà e non ci vengono mai, ormai da anni vivono dai figli a Firenze.
Il Mitraglia cura i loro olivi, porta cassettate d’olio novo alla vecchia signora di Firenze, tanto bigotta, tanto vicina alla Curia del posto e che può mettere una buona parola per l’acquisto della terra, nel frattempo il Povero Mitraglia fa progetti, scrive lettere per farsi raccomandare ai preti e comincia zitto zitto a disboscare, a pulire, a sistemare lo sterrato della strada a potare la sua quercia.
Alla fine sarà lui contro la società straniera a giocarsi l’acquisto di quella collina: lui, il Povero Mitraglia appunto, che non c’ha una lira e per comprare deve indebitarsi fin sopra ai capelli, lui che bestemmia dall’età di sette anni e che non entra in Chiesa più o meno dalla stessa epoca…..alla fine la spunta e conclude l’affare. E quando ancora incredulo, seduto davanti ai Monsignori, sta per compilare l’assegno i buoni padri gli allungano un sorriso benevolo e fanno segno di “no” con i loro indici benedicenti: l’assegno va bene per una parte dell’importo, il resto della somma? In contanti figliolo, AL NERO, Santa Madre Chiesa è povera e non può permettersi di pagare altre tasse…… ancora oggi il Mitraglia racconta di essere uscito da quell’incontro più bestemmiatore e miscredente di quando era entrato.
Nei successivi due anni il Povero Mitraglia diventa ancor più povero perché carico di debiti e di lavoro estenuante: il suo progetto è quello di fare un piccolo agriturismo con un paio di appartamenti per gli ospiti e la piscina ma siccome non ha i mezzi degli stranieri che saranno suoi ospiti e dei tanti che arrivano in Chianti per fare speculazioni immobiliari farà da solo la maggior parte del lavoro, lui e qualche amico, qualche ragazzo albanese preso a giornata, qualche disgraziato raggirato dalle infinite chiacchiere del Povero Mitraglia, qualcuno che insieme a lui lavora anche quindici ore al giorno per demolire e murare, per piantare e spianare, per rifare il tetto e i pavimenti.
Comincia a mettersi male per il Povero Mitraglia, gli piovono addosso vincoli paesaggistici e ambientali, carte e divieti di cui non capisce niente, il cugino architetto ( uno come il Mitraglia ha un cugino per ogni disgrazia della vita: dal mal di denti alla dichiarazione dei redditi) gli dice che i lavori costeranno più del previsto, la moglie e i suoceri lo ossessionano con le loro paure e le loro ansie, la banca aumenta i tassi d’interesse….lui infondo se ne frega.
Sta dodici ore sull’escavatore e la mattina si sveglia alle quattro per andare a caccia. Ogni tanto, quando è stanco guarda la sua quercia che si erge  maestosa in mezzo al prato finalmente curato.
Oggi, dopo anni di lavoro, Il Povero Mitraglia non è più tanto povero: gli americani vengono a fare il bagno nella sua piscina per godersi il panorama che, nelle giornate limpide, permette di ammirare anche Siena e pagano bene; anche se rimane il mutuo da pagare qualcosa in tasca il Mitraglia se lo mette……i permessi? Qualcuno è riuscito a ottenerlo, ma la maggior parte….si è SCORDATO di chiederli ecco tutto e finché qualcuno non viene a metterci il naso……..
I divieti? Ma i divieti sono fatti per essere infranti no? E lui ha tanti amici, ha parlato con questo, ha parlato con quello, ha sistemato tutto….o l’ha nascosto sotto un tappeto. 
Recentemente abbiamo avuto il piacere di visitare il suo agriturismo: il posto è bellissimo. Il fienile è stato ristrutturato in pietra locale, il panorama è mozzafiato, dispiace che l’interno sia stato sistemato….come dire….in “stile Mitraglia”. Perché uno come lui ha un cuore formidabile e due mani abilissime…ma manca di buon gusto, diciamolo pure. Il suo piccolo resort non regge il paragone con le tante vecchie case toscane splendidamente ristrutturate dei dintorni da gente che certamente nessuno chiama affettuosamente “Mitraglia”.
Noi abbiamo evitato di dirgli che i suoi mobili arte povera, i suoi letti in ferro battuto ci sembravano bruttini rispetto al resto della proprietà ma scommettiamo che avrebbe scrollato le spalle. Il Mitraglia non si offende di non essere un “signore” è contento di quello che è, dopotutto, nient’altro che un contadino scarpe grosse e cervello fino.
Ti racconta tutta la sua storia da cima a fondo come fosse l’Odissea e conclude con una frase da manuale:<< perché ho fatto tutto questo?>> Recita ironico dosando a dovere dramma e commedia:<< perché nella vita bisogna lasciare un segno>>.
E qui ci permettiamo di dissentire. Perché noi crediamo che a quelli come il Mitraglia dei segni, dei soldi, dello stile raffinato, persino della nobile e splendida quercia che troneggia in mezzo al suo giardino non gliene freghi niente di niente.
Il vero motivo per cui si è indebitato fino al collo, ha litigato con moglie e parenti, ha lavorato giorno e notte come un cane….è che si annoiava. Otto ore in Comune a lavorare e la sera davanti alla tv con la famiglia? Non era vita per il Povero Mitraglia, questa. Vuoi mettere scavare da solo le sue strade, tirare giù una casa e costruirla da capo, smontare e rimontare impianti elettrici e idraulici?
Il Povero Mitraglia è come un bambino: gli escavatori pesanti un paio di tonnellate sono le sue macchinine. È come un ragazzo ma ha la testa di un uomo perché il rischio di finire in bancarotta o in galera se l’è preso davvero. E alla fine ha fatto risorgere un luogo dimenticato che rimarrà nelle mani di un Chiantigiano Doc invece di essere uno dei tanti investimenti fondiari di qualche ricco anglosassone.
Eccola qui la storia del Mitraglia e ci scusiamo con i nostri lettori se ci siamo inutilmente dilungati su particolari secondari o se la descrizione del personaggio vi sembra agiografica più che biografica.
Ma, dobbiamo confessarlo, per il povero Mitraglia abbiamo un debole.
Ci ricorda altri uomini, altri luoghi non troppo lontani ne troppo dissimili e ci piace ridere alle sue battute, e ascoltare le sue storie anche se ogni volta che parla con noi abbiamo la certezza che ci sta prendendo per i fondelli…. Malgrado o forse in virtù dei suoi numerosi difetti ci sembra l’uomo perfetto per incarnare lo spirito autentico di queste terre di Toscana.